Il tramonto di un Regno (1a parte)


È un privilegio e motivo di soddisfazione, per un non napoletano, poter pensare a Napoli, e soprattutto viverla con ripetuta frequenza, come ad una seconda patria. E con identico trasporto, viene naturale riflettere, con rabbia e disprezzo del tutto personali, sulla sua storia, su quella di ieri, che per certi versi si ripete ancora oggi, interrotta, nel suo momento forse più fulgido, da quegli “italiani” che, venuti dal Nord, ne massacrarono le carni e gli spiriti, tacendo poi sui libri, per arrogante vergogna, quanto male furono capaci di fare. Italiani, quelli, che non hanno mai voluto insegnare ai propri figli, in famiglia o sui banchi di scuola, la realtà del sedicente “Risorgimento Piemontese”, il quale, sotto la maschera dell’unificazione nazionale, rappresentò per il Sud una totale colonizzazione, uno sterminio di massa, lo stesso che, in questi giorni, in terre apparentemente lontane, fa rabbrividire le coscienze della nostra società “buonista”. Si sa, del resto, che “la storia la scrivono i vincitori”.
Nel momento in cui Vittorio Emanuele II e Napoleone III liberavano la Lombardia dagli austriaci, nel capoluogo campano moriva Ferdinando II, il tanto esecrato “Re Bomba”. Dopo la crisi “rivoluzionaria” del 1849, egli aveva dato libero sfogo alla propria natura un po’ dispotica, facendo e disfacendo ministri e ministeri, ma sempre con figure mediocri, che non godevano di altra autonomia, se non quella di servirlo. C’è da dire che, delle terribili accuse che gli muovevano gli antagonisti, e delle quali lo statista inglese William Ewart Gladstone si era fatto portavoce, non tutte erano fondate, o per lo meno non erano nella stessa misura. Che il suo governo si basasse principalmente sull’esercito e sulla polizia, era indubbio ed ovvio, si potrebbe aggiungere. Gli oppositori erano tutti finiti in galera o in esilio. Nella repressione, la sua mano era stata rozza e pesante, né era mai stato un “servitorello” di Vienna. Tutt’altro. Basata sul più rigoroso isolazionismo, la sua politica estera consisteva nel non farne nessuna con nessuno, tantomeno con l’Austria, di cui respingeva caparbiamente, e spesso villanamente, le ingerenze. Se avesse potuto, per esserne ancora più padrone e governarselo a modo suo, avrebbe rinchiuso il suo reame dentro una muraglia cinese. Il suo modello, più che di sovrano assoluto, era quello del patriarca, di colui che amministra saggiamente e personalmente la giustizia, sotto l’albero di fico, e mozza la testa a chiunque la viola. All’ammonimento del Cancelliere austriaco Klemens von Metternich, che “è inutile chiudere i cancelli alle idee, perché le idee si scavalcano”, lui non aveva creduto.
Non era un satrapo, dedito unicamente a bagordi, come molti lo dipingevano. Nella vita privata si comportava, anzi, come buon padre di famiglia, di una famiglia assai ingombrante che, da sola, bastava a dargli parecchio da fare. La seconda moglie, Maria Teresa d’Asburgo, gli aveva snocciolato ben undici figli, di cui nove erano rimasti felicemente in vita, oltre a Francesco, nato dalla prima, Maria Cristina di Savoia, e destinato a succedergli sul trono. I due coniugi avevano, pressappoco, gli stessi gusti. Partecipavano alle cerimonie d’obbligo e non ammettevano imperfezioni all’etichetta, benché la detestassero. Avevano introdotto a Corte un modello di vita semplice e severo. La maggior parte dell’anno lo trascorrevano nel Palazzo Reale di Caserta, tra le cui marmoree sale il Re si aggirava con un bambino in collo, schivando le fila di mutande e camiciole stese ad asciugare. A tavola era lui che faceva le porzioni ed i cibi erano quelli grossolani della gente comune. Serviva maccheroni, pizza, caponata e soprattutto cipolle, del cui odore era sempre impregnato, anche perché si lavava poco. Più largo che lungo, da cui l’appellativo “Re Bomba”, a quarantacinque anni ne dimostrava più di sessanta. “Ha l’aria di un macellaio benestante”, scrisse di lui una visitatrice svedese.
A differenza del nonno, Ferdinando I, lavorava moltissimo, perché voleva sapere e vedere tutto. Come il suo antenato, “Re Lazzarone”, mescolava, alla padronale imperiosità, una certa bonarietà ed anche un rozzo umorismo, che sfogava in lazzi e nomignoli dialettali. Il suo amore per i sudditi era sincero, anche se lo manifestava opprimendoli un po’ troppo, ma da loro era sufficientemente ricambiato. Più che un Re, i napoletani lo consideravano un “guappo” ed in fondo non sbagliavano, perché del guappo aveva la prepotenza e la generosità. Negli ultimi tempi, però, era cambiato e la voce popolare ne faceva risalire la causa ad un trauma subito. Sul finire dal 1856, mentre a cavallo passava in rassegna le truppe schierate, un soldato uscì dai ranghi e gli vibrò una baionettata. Ferdinando rimase impassibile, anche perché la lama, deviata dalla voluminosa ed adorna sella, non gli procurò che una superficiale scalfittura. Eppure, quell’episodio lo scosse profondamente. Ciò che lo angosciava era comprendere la motivazione di quel gesto inaspettato, sebbene l’inchiesta appurò, che accadde per una momentanea ingiustificata uscita di senno dell’attentatore, tale Agesilao Milano. Da allora si era fatto più inquieto, cupo, sospettoso e, soprattutto, crebbe, sino a divenire un’ossessione, la sua innata superstizione. Tappezzò le stanze di immagini di santi, di corni ed altri amuleti. Mise al bando chiunque fosse indiziato di jettatura, e solo Dio sa, a Napoli, quanti ce ne fossero. Forse, più che effetto dell’attentato, quel deterioramento di umore era il pròdromo della misteriosa malattia che, da lì a poco, lo avrebbe condotto alla tomba. Fatto sta, che a ridargli fiducia e pace non bastò nemmeno il misero fallimento del patriota Carlo Pisacane, salda dimostrazione dell’innata sordità, nei propri sudditi, ad ogni sollecitazione rivoluzionaria.
Sempre fedele al motto: “Amico di tutti, nemico di nessuno”, nella guerra del 1859 si era attenuto alla più stretta neutralità, dicendo che la cosa “non lo riguardava”. Il guaio fu che lo credeva veramente. Invano, suo fratello Leopoldo, Conte di Siracusa, cercò di convincerlo che il processo di unificazione nazionale stava coinvolgendo anche le sorti del Regno delle Due Sicilie e che restarne fuori, significava lasciare l’Italia in appalto ai Savoia. Ferdinando non sentiva il “grido di dolore”, perché non sentiva l’Italia. La vedeva una lontana realtà straniera e la considerava, come il Metternich, unicamente “un’espressione geografica”. Se non lo mise al bando, il fratello, per quelle sue idee tanto “liberali”, fu solo perché, pur considerandolo la pecora nera della famiglia, aveva un debole per lui, nonostante la diversità di carattere, o forse proprio per questa. Spregiudicato, gaudente, libertino e dissipatore, Leopoldo gli dava continuamente grosse preoccupazioni, non soltanto per le divergenti ideologie politiche, ma anche per la sua condotta privata. Organizzava feste sontuose, passava da un’avventura sentimentale all’altra e si circondava di intellettuali, sospetti alla gendarmeria. Il suo “filopiemontesismo” veniva attribuito al fatto di aver sposato una Savoia-Carignano, Maria Vittoria, sebbene il matrimonio fosse subito naufragato, per colpa di lui. Ma Sua Maestà, che per molto meno aveva mandato in esilio l’altro suo fratello, Carlo Ferdinando Principe di Capua, a questo perdonava tutto, perfino le simpatie per la causa nazionale, per Vittorio Emanuele II e per la Costituzione. E Leopoldo, ovviamente, ne approfittava ed abusava, per fare il progressista in una Corte reazionaria.
Nel gennaio del 1859, mentre Cavour stringeva i rapporti con Napoleone III, per la conquista del Lombardo-Veneto, Ferdinando li strinse con il Duca di Baviera, per dare una moglie al primogenito Francesco. Decise, pertanto, di intraprendere un viaggio, con tutta la famiglia, alla volta di Bari, per incontrare la nuora Maria Sofia, sposata per procura a Monaco. Ma nel lasciare il palazzo, raccontò l’Ammiraglio napoletano Ferdinando Acton, vide due frati cappuccini, segno, secondo lui, di cattivo augurio. L’indomani il maltempo costrinse la reale carovana ad una sosta forzata nel paese di Ariano Irpino, dove l’unico alloggio disponibile era presso il palazzo del Vescovo, Monsignor Michele Caputo, carbonaro e, soprattutto, noto jettatore. Sebbene colto da un accesso di febbre, volle subito proseguire per Foggia. Non si reggeva in piedi ed il suo volto era cadaverico. Tuttavia solo a Lecce chiese un medico. Gliene proposero due. Uno bravo, ma liberale, l’altro somaro, ma conservatore. La Regina optò per il secondo, che diagnosticò al Sovrano un forte raffreddore. Rassicurato, Ferdinando si recò a teatro, per una rappresentazione in suo onore e vi trovò un locale gelido e pieno di spifferi. Ogni tanto, nel palco reale, si alzava in piedi, come era solito fare per tirarsi su le braghe. Tutti gli spettatori, credendolo ogni volta sul punto di andarsene, lo imitavano ripetutamente. Nella notte, la febbre riprese ed aumentò, accompagnata da violenti dolori in tutto il corpo. Ma intese proseguire per Bari, dove la sposa di Francesco era in arrivo. Da lì non riuscì più a muoversi. Per rientrare a Napoli, dovette attendere l’arrivo di una nave, da cui sbarcò già mezzo cadavere. Nessuno capì di che cosa si trattasse. Il povero Re farfugliava che era stata la lama del Milano ad avvelenarlo e, forse, c’era del vero, in quanto i sintomi erano proprio quelli di un’infezione streptococcica. I flebotomi, quegli strumenti a forma di bisturi necessari per l’esecuzione dei salassi, non facevano in tempo ad incidergli un ascesso, che altri dieci se ne riformavano, sia sul ventre che sulle gambe.