Il disinganno


Francesco Queirolo (1757) Napoli, Cappella Sansevero.

Situato nel cuore del centro antico di Napoli, il Museo Cappella Sansevero è un gioiello del patrimonio artistico internazionale. Creatività barocca e orgoglio dinastico, bellezza e mistero s’intrecciano creando qui un’atmosfera unica, quasi fuori dal tempo.
Tra capolavori come il celebre Cristo velato, la cui immagine ha fatto il giro del mondo per la prodigiosa “tessitura” del velo marmoreo, meraviglie del virtuosismo come il Disinganno ed enigmatiche presenze come le Macchine anatomiche, la Cappella Sansevero rappresenta uno dei più singolari monumenti che l’ingegno umano abbia mai concepito.
Il Disinganno è una rappresentazione allegorica della possibilità, per ogni essere umano, di liberarsi dal peccato, simboleggiato dalla rete, grazie all’intelletto, che assume l’aspetto di un putto.
La scultura fa parte di un gruppo di statue definito “Statue delle virtù”, di vari autori, che comprende anche: amor divino, decoro, dominio di se stessi, educazione, liberalità, pudicizia, sincerità, soavità del giogo coniugale e zelo della religione.
Con il Cristo velato di Giuseppe Sanmartino (1753) e la Pudicizia di Antonio Corradini (1752) forma la terna d’eccellenza artistica della Cappella Sansevero, canonizzata da viaggiatori, guide e storici dell’arte sin dal ’700.
Il gruppo scultoreo descrive un uomo che si libera dal peccato, rappresentato dalla rete nella quale l’artista genovese trasfuse tutta la sua straordinaria abilità. Un putto alato, che reca in fronte una piccola fiamma, simbolo dell’umano intelletto, aiuta l’uomo a divincolarsi dalle maglie intricate, mentre indica il globo terrestre ai suoi piedi, simbolo delle passioni mondane; al globo è appoggiato un libro aperto, la Bibbia, testo sacro ma anche una delle tre “grandi luci” della Massoneria. Il monumento ha una simbologia ricca e complessa; come sottolinea il Bouganville: “Il richiamo al contrasto tra luce e tenebre, evocato dall’allegoria principale nonché dal bassorilievo con la frase “Qui non vident videant” e il passo evangelico di Gesù che dona la vista al cieco inciso nel libro aperto, rafforza il significato dell’allegoria e appare un chiaro riferimento alle iniziazioni massoniche, in cui l’iniziando entrava ritualmente bendato per poi aprire gli occhi alla nuova luce della Verità custodita dalla Loggia” (Henri Bouganville, “Les pierres les plus folles trouvées dans les ruelles de Naples”, Caen, 1851). Bellissima la dedica composta da Raimondo, in cui la vita del padre viene posta a immortale esempio della “fragilità umana, cui non è concesso avere grandi virtù senza vizi”.
Anche la rete è di marmo. Il Queirolo la finì di creare dopo 7 anni. Tutti credevano che fosse impossibile fare una scultura simile, meno lui. Nell’Istoria dello Studio di Napoli (1753-54) Giangiuseppe Origlia definisce a ragione questa statua “l’ultima pruova ardita, a cui può la scultura in marmo azzardarsi”: il riferimento è ovviamente alla virtuosistica esecuzione della rete, che lasciò sgomenti celebri viaggiatori sette-ottocenteschi e continua a stupire i turisti di oggi. A tal proposito, il Bertazzoni scrive che “…come era già avvenuto al Queirolo anni prima nella realizzazione di un’altra statua, lo scultore dovette personalmente passare a pomice la scultura poiché gli artigiani dell’epoca, specializzati proprio nella fase di finitura, si rifiutarono di toccare la delicatissima rete per paura di vedersela frantumare sotto le mani” (Filodemo Bertazzoni, di origini livornesi, ordinario di Scultura Sacra presso l’Università di Saragozza, nonché cameriere segreto dell’infante Alonzo II detto Il Lesso, famoso per il celebre apoftégma “Non a Livorno ‘un s’avrà altro, ma siamo tanto ‘gnoranti”.
Occorre anche citare l’episodio accaduto durante una visita del mi’ cognato Oreste allorché la moglie Argìa lo costrinse a portarla a Napoli. Dopo aver provato senza successo a tuffarla nel cratere del Monte Somma, l’uomo accondiscese suo malgrado ad una visita ai più importanti monumenti della città da lui definita “partenopea e parte napoletana”. Allorché la coppia visitò la cappella Sansevero, egli rimase attonito di fronte a tanta magnificenza di marmi e la bellezza delle opere di quegli artisti per un poco lo privò della parola. Poi, ripresosi, apostrofò così la consorte: “Boja de’, vieni sposa che tutta ‘sta polvere m’ha seccato la gola. Ti porto da Michele a mangiare la vera pizza, vedrai che marmo i tavolini!”