Marozia, un’influencer di altri tempi (1a parte)


Sono state molte le epoche, durate anche centinaia di anni, nascoste nelle tenebre della storia, disconosciute alla comune conoscenza popolare. Una di queste, ad esempio, riguardò grandissima parte del IX e del X Secolo d.C. e coinvolse personaggi dai nomi lontani.
La morte di Carlo Magno, avvenuta il 28 gennaio 814, e lo sfacelo dell’Impero franco avevano provocato la dissoluzione di quel potere laico, che aveva sostenuto il Papato e gli aveva impedito di degenerare. A Roma, in quel tempo, spadroneggiavano due fazioni assai bellicose tra loro, quella toscana dei Tuscolo e quella spoletina dei Crescenzi. Sebbene, entrambe, di origine longobarda ed imparentate tra loro, si disputavano la tiara, eleggevano i Papi, li deponevano e convocavano i Sinodi. Tutto era in loro potere e l’Urbe faceva da sfondo a quella anarchia, che durò, per l’appunto, oltre un secolo.
Le cronache di allora erano traboccanti di delitti, colpi di stato, insurrezioni di palazzo. Il clero, abbandonato a se stesso, sprofondò nella corruzione. I pontefici ed i vescovi vivevano in un lusso da “Mille e una notte”, abitando palazzi sfavillanti di marmi e di ori, imbandendo mense degne di quelle narrate nel “Satyricon” di Petronio, organizzando danze e feste mascherate, sempre attorniati da concubine e servitori. Per poi montare a cavallo, la mattina dopo, una volta assolti gli obblighi liturgici della messa, ed andare spensieratamente a caccia, seguiti da uno stuolo di cortigiani. I Romani amavano quei personaggi, non solo perché di tanto in tanto distribuivano vino e frumento, ma soprattutto perché quando morivano, il popolino poteva tranquillamente entrare nelle loro case e tranquillamente svaligiarle. La Chiesa, lacerata da lotte intestine e prigioniera della propria mondanizzazione, non era mai caduta così in basso.
Nel maggio dell’896, dopo aver occupato per più di quattro anni il seggio pontificale, calò nella tomba quel papa, Formoso I, che aveva incoronato Arnolfo. I signorotti spoletini che, con ogni mezzo, ne avevano ostacolato l’elezione, proclamarono, come suo successore, il figlio di un prete romano, che scelse il nome di Stefano VI. Sotto di lui, venne celebrato quel macabro processo, passato alla storia come il “Concilio Cadaverico”, istruito “post mortem” a carico di Formoso, reo di aver cinto il triregno, nonostante fosse Vescovo di Porto, l’odierna Fiumicino. Il diritto canonico aveva infatti sancito, che i prelati non potessero abbandonare la propria curia ed aspirare alla cattedra pontificia. Tale accusa era, ovviamente, un pretesto che ne nascondeva una ben più grave ed intollerabile, cioè quella di aver chiamato a Roma il Re di Carinzia, Arnolfo, e di averlo sostenuto contro Guido II di Spoleto, Imperatore dei Romani e Re d’Italia, discendente, da parte materna, del sovrano carolingio. La raccapricciante udienza si svolse, nel febbraio dell’897, davanti ad un tribunale appositamente convocato. Il corpo dell’ex pontefice venne riesumato, impaludato, trasportato nella sala del Concilio, al cospetto dei giudici, e deposto su di una sedia con ampi braccioli. Accanto ad esso, in piedi, prese posto un vecchio diacono, che fungeva da avvocato difensore. Stefano VI aprì la seduta e, rivolgendosi alla salma mummificata, chiese: “Perché, tu uomo ambizioso, hai usurpato la cattedra apostolica?”. Il diacono cercò di scagionare il defunto imputato, ma un diluvio di fischi e di insulti, sommerse le sue parole. Formoso, riconosciuto colpevole, fu ufficialmente deposto e tutti i vescovi da lui ordinati, persero il proprio ministero. Emessa la sentenza, un sacerdote si avvicinò al cadavere, gli strappò di dosso i paramenti sacri, gli recise le tre dita della mano destra, con le quali aveva impartito le benedizioni, gli tagliò la testa e, tra i lazzi osceni della plebaglia, gettò le povere ossa nel Tevere. I resti furono rinvenuti da alcuni pescatori, due giorni dopo, sulla riva del fiume e ricomposti, nottetempo, nella sua tomba, a San Pietro. Si racconta, che quando le misere reliquie varcarono la soglia della basilica, le statue dei santi, lungo la navata centrale, chinarono il capo, in segno di riverenza. In quello stesso anno, Sua Santità Stefano VI fu assassinato, ed in quello successivo, dopo un velocissimo interregno di due papi, Romano e Teodoro II, fu eletto Giovanni IX, un benedettino d’origine tedesca, che governò due anni e convocò un concilio, teso proprio a riabilitare la figura di Formoso I. Annullò tutti gli atti del ridicolo processo ed affermò che, giudicando un morto, era stato compiuto un atroce sacrilegio. Poi, in un Sinodo, a Ravenna, annunciò la bancarotta della Chiesa e, nel luglio del 900, morì oberato dai debiti. Gli successero prima tre “papuncoli” e poi, nel 904, Papa Sergio III, sostenuto dalla fazione spoletina, capeggiata dalla sua amante, Marozia (892-936), una donna intrigante e bellissima, figlia del Senatore romano Teofilatto, Vestararius Pontificius et Magister Militum, e di Teodora, Senatrix et Serenissima Vestaratrix di Roma, pedina fondamentale della “pornocrazia” (neologismo, che individua un governo fortemente influenzato dal volere di cortigiane e favorite) capitolina.
Sergio riaffermò la condanna di Formoso e fece strangolare tutti coloro che lo avevano assolto. Per penitenza, ordinò alle monache di recitare, ogni giorno, per suo conto, cento Kyrie Eleison. Restaurò numerose chiese, riedificò la basilica laterana e la riempì di candelabri, statue ed arazzi. Quando morì, il triregno passò sul capo di Anastasio III e poi, nel 913, su quello del conte longobardo Lando, con il nome di Giovanni X. Questi era un uomo ambizioso e sensuale. Godeva della protezione di Teodora, perdutamente innamorata di lui, la quale lo volle papa, proprio per averlo sempre vicino. Inutile dire che a Roma, tutto era nelle mani di Teofilatto, di Teodora, della loro figlia Marozia e del Pontefice. Caduto l’impero carolingio, il clero era stato esautorato e soppiantato da quella famiglia, originaria di Spoleto. I pontefici che, uno dopo l’altro ad essa dovevano la propria incoronazione, ne erano succubi e non osavano disobbedirle. Teofilatto, che si era autonomamente fregiato del titolo di senatore ed aveva insignito la moglie di quello di senatrice, era la massima autorità civile, con poteri pieni ed assoluti. Era a capo della nobiltà e la rappresentava presso l’Imperatore.
Nel 915, sotto gli auspici di Papa Giovanni X, Marozia sposò il conte spoletino Alberico, dal quale ebbe un figlio, cui fu imposto lo stesso nome del padre. Rimasta vedova, convolò a nozze con Guido, fratellastro di Ugo di Provenza, che era però uno dei capi dell’avversaria corrente toscana. Il pontefice, che aveva contrastato quel matrimonio, fu deposto, rinchiuso in carcere e lasciato morire di fame. Gli successe, il figlio che Marozia aveva avuto da Papa Sergio III e che scelse il nome di Giovanni XI. L’incoronazione si celebrò, con gran pompa, nella Basilica di San Pietro.
Il nuovo pontefice era un ragazzo di dodici anni, prigioniero di una madre debosciata e prepotente, di cui divenne confessore. Quando, in circostanze misteriose, il suo sposo misteriosamente morì, Marozia si cercò un altro marito. Aveva già superato la quarantina, ma era una donna piacente, sebbene priva di cultura e completamente analfabeta, come del resto sia la madre che il padre. Re, principi e nobili di ogni rango e nazionalità, aspiravano alla sua mano.
E fra costoro c’era anche quell’Ugo di Provenza, che era stato incoronato a Pavia, Re d’Italia.