Una vita di misteri (2a parte)


Nel 1776, come si è visto, Alessandro Cagliostro, assieme alla giovane moglie Lorenza approdò a Londra, ma dovette quasi subito ripartire e rifugiarsi a Parigi. Qualche mese dopo, decise però di tornare nuovamente nella capitale inglese. Lì incontrò i coniugi Scott, dei ricconi che avevano un’ossessiva passione per il gioco ed amavano azzardare grosse somme di denaro. Quando costoro seppero dell’arrivo di un mago, andarono frettolosamente a fargli visita per chiedergli, senza tanti preamboli, su quali numeri del lotto puntare. Lui glieli fornì, in cambio di poche ghinee. La combinazione fu vincente, gli Scott guadagnarono duemila sterline e, in un baleno, la fama del genio si sparse per tutta la città e non solo. La sua residenza fu presa d’assedio da migliaia di cittadini, pieni di acciacchi, debiti ed illusioni. Alessandro li accoglieva tutti, a tutti dispensava consigli, lenimenti, pozioni e qualche dritta per la riffa. I poveri li ascoltava gratuitamente ed ai più bisognosi elargiva piccoli sussidi. Attrezzò una bella casa ed in essa un confortevole laboratorio. Come ogni alchimista che si rispetti, sperimentava soprattutto di notte, con addosso un lungo camice, tatuato di esoterici simboli. Lorenza ricopriva il ruolo di segretaria, tenendo a bada i postulanti, che si assiepavano davanti la loro porta. Tra tutti, i più insistenti, ed anche i più influenti, erano sicuramente gli Scott, che pretendevano con altalenante irruenza altre vincite. Poiché il taumaturgo non si sbottonava, tentennava, mostrava una certa resistenza, per tutta risposta decisero di denunciarli alle autorità. Furono imprigionati, e Lorenza, per di più, accusata di stregoneria. Una volta rimessi fortunosamente in libertà, i due decisero di tornare sul Continente ma, prima di farlo, Alessandro si volle iscrivere all’Organizzazione di Fratellanza Massonica, che godeva di grande popolarità non solo in Inghilterra, luogo d’origine, ma in tutta Europa, dove le logge erano spuntate come funghi. Sicuramente, l’alone di mistero che avvolgeva quell’associazione ed il prestigio morale di cui godeva, lo entusiasmarono così intensamente, da decidere di fondare una loggia tutta sua. La etichettò di “Rito Egizio”, le diede un motto, uno statuto e se ne proclamò Gran Cofto. In Belgio, in Olanda, in Germania, il Conte Phenix, come si faceva chiamare, fu ricevuto con grandi onori. In Curlandia, una storica regione, che oggi è parte della Lettonia, fu portato in trionfo e gli abitanti di Mitau, la capitale di allora, gli offrirono addirittura il trono ducale, che egli rifiutò. Non erano quelli i galloni cui ambiva. Nutriva il sogno di fondere il vecchio rito scozzese con quello egiziano e diventare il capo universale della massoneria. Fu con quel miraggio, che si recò a San Pietroburgo, sede della consorteria europea più potente e meglio organizzata. In quella capitare ebbe una serie di colloqui con l’imperatrice Caterina, di cui erano noti i sentimenti filomassonici, parlandole a lungo della setta, invitandola ad aderirvi e pregandola di assumerne l’alto patronato. Riuscì decisamente a guadagnarsi le simpatie della corte, ma attirò su di sé le concitate ire dei luminari della medicina russa, per aver guarito due ammalati, che la scienza ufficiale aveva dato per spacciati. Fu probabilmente quel “miracolo” a perderlo ed a consigliargli il trasferimento in Polonia. A Varsavia si diede subito a propagandare il “Rito Egizio”. Tenne conferenze sull’occultismo, organizzò sedute spiritiche, fece esperimenti esoterici e presiedette a numerosi riti di iniziazione. Dopo quasi tre mesi, lasciò quella regione e si diresse a Strasburgo, in Francia. L’accoglienza fu degna di un sovrano. Prese alloggio, con Lorenza, in una bellissima villa, circondato da lacchè, maggiordomi e segretari. Cagliostro, ancora una volta, riceveva tutti ed a tutti dispensava cure, ricette e consigli. Cominciò a circolare addirittura la voce, che fosse in grado di restituire la vista ai ciechi, l’udito ai sordi, la parola ai muti e ridare vigore giovanile agli anziani. L’eco dei suoi prodigi fu tale, che un Cardinale, Vescovo della città, il potente Principe Louis-René-Édouard de Rohan-Guéménée, manifestò il desiderio di conoscerlo e lo volle come ospite, fisso, nel suo sontuoso castello, da molti paragonato a quello di Versailles. Sua Eminenza, in verità, conduceva una vita da nababbo più che da prelato, con feste, che nulla avevano da invidiare a quelle della corte parigina. Il vescovo apparteneva ad una delle più grandi famiglie di Francia, imparentata con i Valois ed i Borbone, e ne era il più illustre rampollo. L’Académie Française, lo aveva accolto nella schiera degli Immortali, per i suoi studi di fisica e di scienze naturali.
Furono probabilmente quegli interessi particolari ad attirarlo verso Cagliostro, che lo iniziò ai segreti dell’occultismo e dell’alchimia. Il principe pendeva dalle labbra del Conte, il quale pendeva dai cordoni della sua borsa. Un bel giorno, all’improvviso ed inaspettatamente, Alessandro decise di lasciare Strasburgo ed emigrare a Parigi, seguito, fino a fuori le mura, da un corteo di acclamanti cittadini commossi, che gli imploravano di rimanere. La capitale francese accolse festosa lui, l’inseparabile Lorenza ed un nutrito codazzo di servi. La coppia si stabilì nel palazzo parigino del Principe di Rohan, il quale, pur di godere il più possibile della vicinanza dell’amico, che seguitava a godere della sua protezione e, soprattutto, dei suoi sussidi, iniziò un costante andirivieni tra la sua diocesi alsaziana e Parigi. Non che la professione di guaritore e di speziale non rendesse, ma certamente non consentiva ai due coniugi italiani di mantenere lo splendido tenore di vita a cui si erano assuefatti. Alessandro si dedicava molto alla massoneria, di gran voga in città. Fece nuovi proseliti ed incominciò ad accarezzare l’idea di fondare in quella città, così ospitale e riverente, la loggia-madre. Ma una triste e macchinosa disavventura, capitata all’ignaro Cardinale Rohan, disavventura, giunta alla storia come lo “scandalo della collana”, che ruotava attorno ad uno straordinario gioiello regale e tanto grave da farlo ripudiare da Corte, costrinse, gioco forza, il “povero” Cagliostro a cambiare frettolosamente, e per l’ennesima volta, ambiente. Il suo peregrinare senza meta, lo condusse a Bienne, in Svizzera, dove poco dopo lo raggiunse la moglie. Si guadagnava modestamente da vivere con i vecchi elisir, fino a quando, nel luglio del 1787, tartassato dalle continue insistenze di Lorenza, che voleva assolutamente rivedere il padre, decise di far rientro a Roma. Il grande avventuriero, che sapeva raggirare principi, prelati e re, era totalmente disarmato, di fronte a quella donnetta di poco cervello e sempre pronta a tradirlo, non soltanto di letto.
Di passaggio a Trento, divenne amico del vescovo, il Principe Pietro Vigilio Thun, il quale si offrì di procurargli un salvacondotto per gli Stati Pontifici, scrivendo personalmente al Segretario di Stato, il Cardinale Ignazio Boncompagni-Ludovisi. Con quel viatico, Alessandro e consorte si misero in viaggio per l’Urbe. Il mago prese alloggio in una locanda di Piazza di Spagna, mentre Lorenza si stabilì nella casa paterna. Cagliostro tentò, a più riprese, di guadagnarsi la fiducia dei massoni romani, ma con scarsissimi risultati, a causa forse della loro diffidenza nei confronti di quello strano rito, dal nome inquietante. Sul finale di quell’unica seduta massonica romana a cui fu ammesso, il 15 settembre 1789 presso Villa Malta, si esibì in una lunga serie di pratiche occulte, che sbalordirono sensibilmente gli attoniti presenti. Per di più, predisse, con tre settimane di anticipo, i moti insurrezionali di Versailles contro Luigi XVI, la nascita della Rivoluzione Francese, in pratica. Non si è mai saputo, se sia stata la sua deflagrante presenza nel simposio ad insospettire le autorità pontificie, o se siano intervenute altre circostanze e delatori. Sta di fatto, che il Sant’Uffizio gli si mise alle calcagna. Come tutti i furbi troppo furbi, Alessandro evidenziava, talvolta, un’ingenuità disarmante. Non si accorse, o finse di non accorgersene, che anche Lorenza tramava contro di lui, sobillata da un sedicente monaco, che riuscì a farle confessare le attività magiche del marito, promettendole in cambio il Paradiso. Probabilmente quell’ammissione, fu solo il pretesto per eliminarlo. La causa vera, andrebbe ricercata nei reiterati tentativi del Gran Maestro massone di fondare, a Roma, una strana congregazione dall’oscuro rituale, nel quale la Chiesa vedeva una grave minaccia sia alla Fede che all’ordine costituito.
Il 27 dicembre 1789, Alessandro fu arrestato e tradotto nella fortezza di Castel Sant’Angelo. Comparve quarantatré volte davanti ai giudici, che lo sottoposero ad estenuanti interrogatori. Si proclamava, ora innocente, ore colpevole, ora di nuovo innocente. Lo accusavano di aver negato “la maestà e la perfezione di Dio, la divinità di Gesù Cristo, la verginità di Maria e la dignità della gerarchia ecclesiastica”. Tentò disperatamente di scagionarsi, ma il tribunale ecclesiastico, che lo voleva a tutti i costi colpevole, non ascoltò le sue arringhe. Ed il 21 marzo 1791, lo condannò a morte. Per intercessione di Papa Pio VI, la pena capitale gli fu commutata in quella dell’ergastolo, da scontare nella fortezza pontificia di San Leo, nel ducato di Urbino. L’imputato ascoltò la sentenza in ginocchio, con i piedi ed i polsi incatenati ed il volto incappucciato. Poi, in veste di penitente e con un cero in mano, a piedi scalzi, dovette assistere al pubblico rogo delle sue carte, dei suoi strumenti e dei suoi emblemi massonici. A San Leo fu rinchiuso in una cella di tre metri, detta del pozzetto (ancora oggi visitabile), umida, maleodorante, infestata da topi, cimici e pidocchi, in cui venne calato attraverso una botola scavata nel soffitto. Una finestrella di trenta centimetri per settanta, protetta da una massiccia inferriata, era l’unico spiraglio sul mondo esterno. Non poteva né vedere, né comunicare con nessuno. Quell’isolamento estremo lo fece piombare nella più cupa disperazione. Per ammazzare il tempo, imbrattava le pareti di simboli esoterici e di autoritratti, usando le sottili festuche del pagliericcio come pennelli e l’urina, mista a ruggine, come colorante. Quel calvario, durò più di quattro anni. Gli ultimi mesi furono i più terribili. Ormai privo di senno, urlava giorno e notte, coprendosi di morsi e graffi ogni parte del corpo e sbattendo la testa contro il muro. Il 26 agosto 1795, finalmente, un attacco apoplettico lo liberò da tante sofferenze. Il suo cadavere venne adagiato su un’asse di legno e sepolto in terra sconsacrata. La notizia della morte si diffuse, in un baleno, per tutta Europa e la figura di quell’irreale personaggio tornò prepotentemente alla ribalta. La leggenda se ne impadronì. Apologeti e denigratori se la contesero. Venerata dagli uni, esecrata dagli altri, fu consegnata ai posteri che, nonostante il trascorrere del tempo, non hanno mai smesso di chiedersi chi sia stato veramente Giuseppe Balsamo, alias il Conte Alessandro Cagliostro.
La risposta più attendibile è sicuramente racchiusa in alcune sue parole: “La verità su di me non sarà mai scritta, perché nessuno la conosce. Io non sono di nessuna epoca e di nessun luogo. Sono al di fuori del tempo e dello spazio. Io divento colui che desidero. Io sono colui che è. Io sono Cagliostro”.