Una vita di misteri (1a parte)


Un posto di particolare rilievo, sul palcoscenico della storia, per l’alone di oscura, disarmante ed inverosimile magia di cui è sempre stato circondato, spetta sicuramente a Giuseppe Balsamo, martire o impostore, profeta o istrione, scienziato o ciarlatano, filantropo o imbroglione. Nessun avventuriero, in un secolo che ne produsse una moltitudine, fece tanto parlare di sé, fu al centro di innumerevoli polemiche, appassionò e divise così ferocemente l’opinione pubblica di mezzo mondo. Venne odiato ed idolatrato, ossequiato alla stregua di un sovrano senza corona o avvilito, con uguale naturalezza, al rango di volgare furfante. Eppure la storiografia non è mai riuscita dare di lui un convincente ritratto. Chi fu realmente quell’uomo, che ostentò fama, potere e mistero, sotto la falsità di un nome inquietante?
Diceva di essere venuto al mondo in Oriente, nella terra delle Piramidi e di essere cresciuto alla corte del Muftì (cultore di scienze giuridico-religiose) Salaahim, dove aveva appreso i primi rudimenti di magia e di alchimia. Si vantava di aver impartito, già da uomo adulto, ad un Gesù ancora fanciullo, molti consigli utili e di aver assassinato, su mandato del Senato di Roma, Gneo Pompeo Magno, evitando sempre, però, di fornire particolari sul delitto. Naturalmente, i dati anagrafici, sebbene di difficile reperimento, parlano un linguaggio molto più reale e dimesso.
Era nato a Palermo, l’8 giugno 1743, figlio di un mercante, Pietro Balsamo, e di una donnetta tutta casa e chiesa, Felicita Bracconieri, che il figlio faceva discendere, nientemeno che, da Carlo Martello. Non si hanno molte notizie sulla sua infanzia, perché si rifiutò sempre di parlarne. Quel poco che si sa, lo si deve a cronache sparse e lacunose di contemporanei, che di lui cominciarono ad occuparsi, solo quando diventò Alessandro Cagliostro.
Fu un bambino esuberante e vivace, di pronta intelligenza, con poca voglia di studiare, disobbediente ed attaccabrighe. Fino a tredici anni frequentò il seminario di San Rocco, dove la famiglia lo aveva rinchiuso, per toglierlo dalla strada ed allontanarlo dalle cattive compagnie. Ma vi combinò tali e tante bricconate, che i superiori, sfiniti, decisero di espellerlo. I genitori, allora, lo spedirono a Caltagirone, nel cenobio dei Fatebenefratelli, dove si fece subito notare, per il carattere ribelle e la conclamata repulsione allo studio. Con il clero, evidentemente, poco se la intendeva e la teologia lo annoiava a morte. Quanto al greco ed al latino, non ne imparò nemmeno le prime basilari nozioni. L’unico interesse, costante ed ossessivo, lo nutriva per la chimica che, come del resto in tutti i conventi del tempo, era tenuta in grande considerazione e largamente praticata. Diventò aiuto del “padre speziale”, il quale lo iniziò ai segreti della farmacopea. Imparò a confezionare elisir di lunga vita, balsami contro l’artrite, pomate per gli eczemi e, finanche, filtri d’amore, che pare andassero a ruba anche tra i suoi confratelli. Fu, come la precedente, una parentesi breve, perché la condotta di quel catecumeno si manifestò particolarmente scandalosa e contagiosa per i compagni. Un giorno, prima della refezione mattutina, Giuseppe fu chiamato a leggere ad alta voce le litanie. Lo fece, sostituendo i nomi delle sante con quelli di note cortigiane. Per il padre priore fu la goccia che fece traboccare il vaso e lo cacciò in malo modo. Il ragazzo tornò a Palermo, accolto con freddezza e disappunto dalla famiglia la quale, sfumato il sogno di un figlio prete, gli intimò di provvedere a guadagnarsi da vivere da solo. Non aveva né arte né parte, ma da buon italiano, e per di più da verace siciliano, possedeva un’immaginazione straordinariamente fertile. Fu in quel periodo, che scoprì di avere una spiccata attitudine per il disegno. Perché non sfruttarla, quindi, fabbricando testamenti ed assegni falsi? Si mise subito all’opera, ricavando parecchio denaro, ma venne scoperto e dovette cambiare aria ed attività. Fece per un certo tempo il ruffiano. Smascherato ancora una volta, diventò “pataccaro”, vendendo oggetti falsi, di poco valore, spacciandoli per antichi e di grande pregio. La polizia gli si mise alle calcagna e fu costretto ad abbandonare Palermo, per Messina.
Lì conobbe un uomo, capace di cambiare il corso della sua vita, un armeno di nome Altotas, che si definiva un cultore di scienze occulte ed in particolare del segreto del “Mysterium Magnum”, la cosiddetta “Materia Prima”, necessaria a realizzare la Pietra Filosofale, anzi se ne proclamava “l’ultimo depositario”. Fu costui a svelare a Giuseppe i segreti della magia ed a condurlo in Oriente. L’esatta cronologia dei suoi spostamenti in Africa ed in Asia Minore, furono sempre avvolti nel mistero, forse per avvalorare la leggenda della propria nascita favolosa. Di sicuro visitò la Grecia, l’Egitto, Rodi e Malta. Nella piccola isola mediterranea, fu presentato al Gran Maestro del Sovrano Ordine Militare, Manuel Pinto de Fonseca, che lo prese a benvolere e gli allestì un laboratorio di alchimia, con tanto di alambicchi, matracci, storte e provette. Coadiuvato dall’inseparabile Altotas, passava notti intere a mescolare polveri, distillare erbe, confezionare decotti, elisir e pomate. La morte del fedele compagno però, avvelenato dalle fatali esalazioni di un crogiolo, pose fine agli esperimenti ed al suo soggiorno maltese. Tornò a Palermo, ma non vi restò a lungo, perché la gendarmeria non lo perdeva di vista, rendendogli un’esistenza impossibile. Raggiunse Napoli, da dove fu costretto a scappare, per il rapimento di una minorenne. Partì, quindi, per Roma, accompagnato da una lettera di presentazione per il giovane neo ambasciatore di Malta, Louis-Charles-August Le Tonnellier, barone di Breteuil, che lo accolse come un fratello. Riprese la sua attività di alchimista e acquistò ben presto una discreta fama di guaritore. Le sue pillole, le pozioni ed i filtri magici, trovarono molti acquirenti, specialmente in quella parte di popolo più ingenuo e credulone, fino a quando una violenta rissa, che probabilmente lui stesso scatenò, nella Locanda del Sole, a piazza del Pantheon, non lo fece rinchiudere nelle segrete di Castel Sant’Angelo. Fu rilasciato, solo dopo tre giorni, grazie ad un sollecitato intervento del Cardinale Domenico Orsini d’Aragona. Correva l’anno 1768 e Giuseppe Balsamo non ne aveva ancora compiuti venticinque.
Non poteva essere definito bello, simpatico ed interessante sì. Generoso e galante con le donne, nonostante il sangue “caliente” che gli scorreva nelle vene, per loro non perse mai la testa, fatta eccezione per Lorenza Serafina Feliciani, un’avvenente trasteverina di quattordici anni, non molto alta, fresca, formosa, “dolce, gentile e timida”, come amava ripetutamente apostrofarla. Si ignora dove e come Giuseppe la conobbe. Forse la ragazza andò da lui per acquistare una crema di bellezza o forse i due si incontrarono casualmente per strada. Certo è, che in quattro e quattr’otto si sposarono. Lei portò in dote centocinquanta scudi in abiti, gioielli, biancheria e denaro. Lui altrettanto in moneta sonante. Per i primi tempi, dopo il matrimonio, gli sposi si stabilirono nella casa dei Feliciani, per poi andare a vivere, nel quartiere Trinità dei Pellegrini, insieme ad un concittadino di Giuseppe, tale Ottavio Nicastro, un tipo equivoco, subdolo, spia del Bargello, e ad un altro palermitano, un certo marchese Agliata, dal carattere non dissimile da quello di Balsamo, che si proclamava, non si sa con quanto fondamento, rampollo di una nota famiglia siciliana, originaria di Pisa. Una denuncia per contraffazione di cedole, su ben retribuita soffiata dello stesso Nicastro, obbligò la coppia ed il “nobile” amico, a fare fagotto in fretta e furia. Fu in quello stesso anno, dopo aver conosciuto l’Agliata, che Balsamo adottò il nome di Alessandro Cagliostro, per qualche tempo fatto precedere dal titolo di Conte e dal grado di Colonnello degli Ussari della cavalleria prussiana. A chi quel cognome fosse appartenuto, non è dato sapere. Alcuni storici lo hanno ascritto ad un suo antenato materno, altri gli hanno attribuito origini orientali, altri ancora lo hanno derivato dalla cabala. Comunque, da quel momento Giuseppe Balsamo cambiò identità. Su consiglio del marchese, che nel frattempo era diventato l’amante di Lorenza, il terzetto, vivendo di piccoli espedienti ed elemosina, toccò le città di Loreto e di Bergamo, girovagò per l’Italia del Nord, la Francia meridionale, la Spagna ed infine approdò in Portogallo. Come sbarcassero il lunario, non è difficile immaginarlo, imbrogli ed accattonaggio. A Lisbona, peraltro, Cagliostro cercò di gettare la propria moglie tra le braccia di un potente ministro, ma Lorenza, che pure non era nuova ad un tal genere di esperienze, si ribellò, con grande collera del marito.
Nel 1776, i nostri sposi ricomparvero a Londra, dove Alessandro si dedicò alla vendita di elisir di lunga vita, decotti e purganti. Lorenza si dimostrò assai più compiacente e la coppia cominciò finalmente a godere di un po’ di benessere. Il soggiorno londinese fu bruscamente interrotto da un’accusa di ricatto, che li fece finire in prigione, dove non rimasero a lungo, poiché un facoltoso cliente, che si sentiva orgogliosamente risanato dal prodigioso mago, pagò la cauzione. Per sdebitarsi, quest’ultimo gli sedusse la figlia, nonostante l’imbarazzante bruttezza di lei. Scoperta la tresca, il padre mise gli ospiti alla porta. Presero la via di Parigi, dove Lorenza conobbe un certo Duplesir e se ne invaghì. Quando Cagliostro se ne accorse, colto da un eccesso d’ira, minacciò fuoco e fiamme. In effetti, trovava del tutto naturale, che la moglie si dedicasse a servizi di alcova, purché consumati nell’interesse della famiglia e non per proprio piacere. E la punì, facendola rinchiudere in una specie di convento.