PsicologicaMente – La forza della gentilezza


“ La gentilezza è la lingua che il sordo ascolta e il cieco vede.” ( M. Twain )

Cari lettori,
Questa settimana vorrei affrontare un’altro argomento che ritengo essere eccessivamente trascurato, un po’ perché può apparire un tema scontato, un po’ perché ormai la gentilezza, è di questo che parleremo, è un sentimento che sembra sempre più raro.
Il filosofo imperatore Marco Aurelio disse che “la gentilezza è la delizia più grande dell’umanità” e come lui, molti altri hanno espresso questo stesso parere. Tuttavia, ai giorni d’oggi, sembra che questa idea sia qualcosa di estremamente teorico ed aleatorio, difficile da mettere in pratica o addirittura viene percepita come un concetto estremamente puerile.
Ciò accade perché nel nostro immaginario la gentilezza non è un istinto naturale ma qualcosa di artefatto, che va costruito ed innescato sulla base di comportamenti profondamente competitivi, egoistici ed autoconservativi.
Si potrebbe dire che essere gentili è diventato un piacere proibito perché spesso risulta addirittura rischioso. Ebbene si, è rischioso perché presuppone una forte sensibilità nei confronti degli altri ed una capacità di riuscire ad identificarsi con i piaceri e le sofferenze altrui e questo, in qualche modo, potrebbe minare l’equilibrio e la serenità personale.
Comunque, anche se il piacere della gentilezza può risultare imprudente, resta il fatto che si tratta di una delle cose più appaganti che la vita ci regala.
A confermarlo anche il filosofo David Hume, il quale sosteneva che chi è così pazzo da negare l’esistenza della generosità “ha perso il contatto con la sua realtà emotiva” e che rinunciare alla gentilezza arreca un danno al senso di benessere di ciascuno di noi perché ci priva di un piacere arricchente.
Oggi la parola “gentilezza” viene adoperata quale sinonimo di altruismo, generosità, solidarietà, benevolenza, umanità, compassione, pietà, empatia anche se, in passato, questi sentimenti erano identificati con altri termini quali philantropia ovvero amore per l’umanità, e caritas ovvero amore per il prossimo.
In effetti, se analizziamo singolarmente il significato reale di questi termini scopriamo che per ciascuno di essi cambia, ma è pur vero che tutti rimandano ad un concetto più alto e che, in epoca vittoriana, veniva definito “cuore aperto”, cioè quello slancio ad essere bendisposti verso il prossimo.
In quegli anni moltissimi autori, nei loro scritti, celebravano l’idea per cui la distanza dagli altri può certamente farci sentire sicuri, ma può con altrettanta certezza farci soffrire indicibilmente.
Del resto la nostra storia ci illustra come gli esseri umani sono da sempre alla ricerca dei legami, a partire dalla celebrazione classica del sentimento dell’amicizia fino ad arrivare agli insegnamenti cristiani sull’amore e sulla carità. Così come, sempre la storia, ci mostra anche che le persone creano enormi distanze e che la capacità di amare il prossimo risulta inibita da paure e rivalità inutili e fuorvianti.
Per secoli la gentilezza è stata lo strascico della cristianità, che celebra l’istinto generoso delle genti e lo mette alla base di una fede universalmente riconosciuta come caritatevole e proiettata all’amore verso gli altri.
La carità cristiana è stato un importante collante culturale almeno finché, a partire dal cinquecento il comandamento “ama il prossimo tuo come te stesso” non ha subìto la concorrenza dell’individualismo. Ricordiamo come Hobbes considera la generosità cristiana psicologicamente assurda in quanto gli uomini sono delle bestie egoiche che pensano solo al loro benessere: per il celebre pensatore, l’esistenza sarebbe, in sostanza, una “guerra di tutti contro tutti”.
Queste teorie, nonostante il pensiero contrario di molti tra cui Hume, diventarono radicate, sicché ad oggi moltissime persone, per motivi legati all’esperienza o semplicemente all’indole, sono convinte di essere mosse, intelligentemente e correttamente, solo dall’interesse personale.
Non voglio fare il pessimista ma è abbastanza chiaro che, nell’era del virtuale, delle finzioni e dei “filtri”, la gentilezza può solo innescare diffidenza e le dimostrazioni pubbliche di generosità vengono tacciate di moralismo e sentimentalismo. Pensiamo alle icone popolari della solidarietà come la principessa Diana, Nelson Mandela, madre Teresa, ebbene sono adorate come santi ovvero accusate di ipocrisia. Del resto, in una società dove prevalgono l’opportunismo e le cattive maniere, l’arrivismo e la sfacciataggine, è facile che la gentilezza sia travisata come ingenuità o che venga stigmatizzata come un segno di debolezza.
E’ vero anche che lo stress e tutte le malattie fisiche e psichiche che la modernità porta con sé, le esperienze dolorose che ciascuno di noi vive, le paure, i lutti non elaborati, possono renderci cupi, amari ed egoisti, avari di sentimenti d’amore. Le persone tristi, arrabbiate, vendicative perdono il dono della gentilezza e, inconsapevolmente, si suggestionano negativamente fino ad arrivare a credere di abitare in un mondo ostico ed inospitale, dove occorre sgomitare, ingannare, manipolare per sopravvivere.
Ecco perché l’incapacità di essere gentili rappresenta una vera e propria disfunzione esistenziale, psicologica e morale, che consuma dall’interno e profondamente la qualità della nostra vita, e così da compromettere, anche socialmente, la possibilità di creare una collettività più sana e più integrata.
Chi è gentile è capace di apertura e di rispetto, mostra tolleranza e ascolto e conosce i valori dell’affidabilità e della reciprocità.
George Sand ci ammonisce in tal senso: “Custodisci bene dentro te stesso questo tesoro, la gentilezza. Impara a dare senza esitazione, come perdere senza dispiacere, come acquisire senza grettezza.”
Purtroppo chi è gentile deve aspettarsi anche incomprensione ed ingratitudine, ma ciò non deve assolutamente frenarci dal coltivare un’attitudine che ci dona serenità ed amore autentico, ciò a cui ogni uomo dovrebbe aspirare.
E’, inoltre, interessante sapere che in latino la parola “gentilezza” significa “nobiltà” e che c’è chi ha scritto che “tenerezza e gentilezza non sono sintomo di disperazione e debolezza, ma espressione di forza e di determinazione” (Khalil Gibran), e questa è anche un’evidenza in ambito psicologico: la gentilezza è correlata al benessere, alla resilienza, alla creatività e alla stabilità relazionale.
Chi assume un atteggiamento positivo, incondizionato, e realistico, si fortifica rispetto agli eventi critici della vita, oltre ad avere maggiori probabilità di realizzare i propri talenti, gli obiettivi personali e professionali.
Essere gentili non è impresa galattica! Dire “grazie”, “posso aiutarla?”, compiere azioni come aiutare un amico in difficoltà, cedere il posto ad un anziano in metropolitana, dare la precedenza o mettere la freccia alla guida sono gesti che, paiono insignificanti, ma possono in realtà riportarci ad un valore primordiale e fondamentale, possono favorire il nostro benessere psichico e fisico.

Notazioni Bibliografiche:
-“L’arte rivoluzionaria della gioia. Il potere della gentilezza amorevole e il sentiero verso la libertà”, S. Salzberg, Ubaldini Editore;
-“La forza della gentilezza. Pensare e agire con il cuore fa bene al corpo e allo spirito”, P. Ferrucci, Mondadori.