L’incontro di Gioacchino e Anna alla Porta d’oro


Giotto, Affresco nella Cappella degli Scrovegni (Padova).

La rappresentazione di Giotto mette in evidenza la tragedia evangelica che, purtroppo, al concilio di Nicea venne scotomizzata dai vangeli ufficiali ma che – quasi per una nemesi divina – ha mantenuto traccia e testimonianza nell’apocrifo Apocalisse di Filippo, manoscritto aramaico del tardo Iº secolo rinvenuto a Qumran in un vaso di alabastro scoperto da un pastore curdo. Questi si trasferì in quell’area avendo sposato una vedova ebrea di Jaffa, la cui piantagione di pompelmi era stata distrutta nel conflitto dello Yom Kippur, rimanendole solo l’immenso gregge di pecore da lana ereditate dal padre.
Il pastore, che aveva desiderato assai più la piantagione della vedova, si era consolato col gregge, che gli permetteva di passare più tempo fuori che dentro casa.
Fu proprio durante una transumanza che scoprì in una grotta il vaso e il manoscritto in esso celato. Passata la sorpresa iniziale decise di venderlo a un mercante di Hebron, e col ricavato si procurò un passaporto falso che gli permise di imbarcarsi per l’Europa.
Il mercante cedette a sua volta il manoscritto (di cui non riusciva a capire una beata fava) a un archeologo americano che all’epoca stava iniziando degli scavi ad Ascalona. Questi tradusse il manoscritto e realizzò di trovarsi di fronte a una svolta epocale nella storia del cristianesimo.
Nella conferenza che fu organizzata al Metropolitan Museum di New York, fu svelato il contenuto del testo: in pratica le solite cazzate che scrivevano gli apostoli, probabilmente sotto l’effetto di funghi Psilocybe, tuttavia nel testo spiccava un intero capitolo, perfettamente conservato, in cui viene narrata la storia tristissima di Gioacchino, un contadino alcolizzato che durante una cena con amici aveva scommesso che avrebbe convinto la moglie Anna a portare in testa l’asse del cesso dipinto d’oro per un’intera giornata.
Per convincerla si era messo in capo egli stesso un identico sedile. La moglie accettò la sfida per tema che un rifiuto avrebbe scatenato l’ira manesca del consorte, quindi lo invitò ella stessa a bere una fiasca di vino di mele fermentato (bevevano dei veri troiai, a quell’epoca). Alla fine, vedendolo più sbronzo di una ciliegia sotto grappa lo blandì con baci e carezze per riuscire a portarlo a casa, dove il poveretto spirò non riuscendo a riprendersi dal coma etilico in cui era piombato.
La donna, presa dal rimorso, si fece mangiare viva dalle formiche rosse dopo aver tracannato ciò che restava dell’orrenda bevanda, sempre tenendo sulla testa l’asse del cesso dorato, in omaggio e memoria dell’amato consorte.
La scena dipinta dal grande artista fiorentino ricorda peraltro l’abbraccio con cui il mi’ cognato Oreste viene puntualmente accolto dalla consorte Argia quando torna sbronzo per aver cercato di dimenticare l’ennesima sconfitta a briscola. La moglie ogni volta lo accoglie con una tenera carezza mentre gli sussurra all’orecchio: “E anche vesta settimana vì ‘un te la mollo, brutto manfruito!”.