Doctor Mirabilis


Confuso forse, a prima vista, con un omonimo, sicuramente più famoso ma vissuto, peraltro, tre secoli più tardi, Doctor Mirabilis fu uno dei maggiori pensatori del suo tempo, che dedicò la propria mente alle osservazioni dei fatti, naturali e non, tanto da essere considerato uno dei padri dell’empirismo. In un suo libro, dal titolo “De secretis operibus artis et naturae”, incredibilmente scrisse: “Arriveremo a costruire macchine capaci di spingere grandi navi a velocità più forti, che un’intera schiera di rematori, e bisognose soltanto di un pilota che le diriga. Arriveremo a imprimere ai carri incredibili velocità, senza l’aiuto di alcun animale. Arriveremo a costruire macchine alate, capaci di sollevarsi nell’aria come gli uccelli”.
Era l’anno 1214, quando in Inghilterra, a Ilchester, villaggio fondato dai romani un millennio di anni prima, venne al mondo Roger Bacon (italianizzato Ruggero Bacone), da una famiglia appartenente alla nobiltà rurale e particolarmente fedele alla monarchia plantageneta. Tra il 1227 ed il 1234, compì i suoi primi studi nella scuola di Oxford, seguendo con attenzione l’insegnamento del frate priore Robert Grosseteste. Nel 1254 si traferì a Parigi, per frequentare la facoltà delle arti, presso il neonato Collegio della Sorbona, fondato dal cattolico Robert de Sorbon. Conseguì, due anni dopo, il titolo accademico di “maestro delle arti”, dedicandosi alla composizione di numerosi trattati di medicina, ottica, alchimia, astronomia ed astrologia. Nel 1257, la nobiltà e l’alto clero inglesi costrinsero il re, Enrico III, ad accettare le “Provisions of Oxford”, atti emanati per risolvere una disputa tra lui ed un gruppo di baroni, guidati da Simone di Montfort, VI Conte di Leicester. Quel lungo conflitto, fu causa, per i Bacone, di una rovinosa crisi economica che, gioco forza, costrinse il ragazzo ad entrare in un convento dell’ordine francescano. Da lì nacque la sua fortuna.
Una missiva, spedita a Ruggero il 22 giugno 1266 da Viterbo, momentanea sede della Curia pontificia, fu l’evidente segno dell’interesse, che il nuovo papa nutriva per la singolare personalità di quel francescano inglese, di cui non doveva ignorare la vastissima conoscenza della scienza greco-araba, la grande perizia nel “metodo degli esperimenti”, né, probabilmente, le ardite opinioni sul valore dell’astrologia, dell’alchimia e di certe pratiche magiche. Così come i suoi decisi atteggiamenti riformatori, l’instancabile polemica contro la decadenza spirituale ed intellettuale degli ordini mendicanti e la motivata condanna della cultura dominante, nella maggiore universalità dell’Occidente cristiano.
L’uomo, al quale si rivolgeva Clemente IV (1190-1268), al secolo Gui Foucois, 183° pontefice della Chiesa cattolica, beatificato l’8 giugno 1864 da Pio IX, era già abbastanza noto nei due grandi poli del sapere, Parigi ed Oxford, un uomo che non aveva mai trascurato di mettere in luce, nei suoi scritti più importanti, la netta divergenza esistente tra il proprio modo di considerare la funzione ed i fini della “vera” conoscenza cristiana ed i metodi seguiti dai filosofi e dai teologi degli atenei pubblici o monastici. Giunto nella pienezza dell’età, aveva ormai alle spalle un lungo ventennio di intensi studi e di vastissime ricerche in tutti i campi dello scibile, rese più difficili dall’appartenenza ad un’organizzazione religiosa, che aveva assunto ufficialmente un atteggiamento molto rigido nei confronti di tutte le opinioni troppo audaci ed innovatrici. Ma soprattutto Frate Ruggero aveva meditato a lungo sulle presenti condizioni del cristianesimo e sulla sua sorte imminente, nutrendosi di speranze e di attese profetiche, come molti altri confratelli. Concepiva il lavoro di filosofo e di curioso indagatore della natura, come un contributo decisivo al generale rinnovamento della cristianità, nella esaltante prospettiva di una pacifica unificazione di tutte le genti, sotto il segno di Cristo, e di una comune concorde collaborazione di tutti i sapienti, per attuare ed estendere il Regno di Dio nel mondo.
Dopo anni di amarezze e di difficoltà, l’epistola pontificia lo liberava finalmente dall’ingrato silenzio, al quale era stato costretto dalle “Costituzioni Francescane” di Narbona (Costitutiones Narbonensi) del 1239, le rigidissime norme del Capitolo Generale che, risistemate e completate nel 1260, sotto la sicura direzione del futuro santo, Bonaventura da Bagnoregio, segnavano, punto per punto, le non certo blande regole comportamentali dell’Ordine. Inoltre, quella lettera gli permetteva di rivolgersi al solo uomo che avrebbe potuto accettare il suo grandioso progetto, quello di rinnovare, alle radici, la cultura cattolica e guidare, sia la Chiesa che l’intero genere umano, verso il perfetto bene. La luce dello Spirito Santo, la stessa che aveva illuminato ed illuminava i sapienti, aveva toccato anche il Vescovo di Roma, indicandogli la vera missione, il compito universale del suo governo. Era finalmente possibile, per lui, far fruttare i risultati di tante sue letture, indagini ed esperimenti, di concretizzare le conquiste di un lungo periodo della sua vita, spesa nell’attesa di quel giorno, maturata dal continuo confronto con le correnti dottrinali del suo tempo, arricchita da un eccezionale processo di altri patrimoni tradizionali e fortemente saldata alle sue prime, inconfondibili origini.
Come si è detto, Ruggero Bacone non veniva dall’umile gregge degli indigenti, sorti dalle città comunali o dai vicini contadi d’Italia e Francia, per propagare antichi ideali di povertà e di pace cristiana. Non era una delle “pecorelle”, che Francesco d’Assisi aveva chiamato a rinnovare, con lui, la perfetta imitazione del Cristo. La sua provenienza era ben diversa, radicata in un altro ceto, in un altro ambiente, con altre esperienze storiche e sociali. Di quella stirpe aristocratica, “lealista” verso la corona britannica, anche nel corso dei lunghi conflitti tra sovrano e baroni, che si era affermata, come molte altre nelle contee centrali e meridionali del paese, legata fortemente alla terra, abile amministratrice delle proprie ricchezze, sollecita a migliorare i propri fondi e non schiva di rapporti con il nascente ceto mercantile ed artigiano, il “maestro” francescano mantenne sempre alcuni caratteri essenziali, nel suo polemico spirito di indipendenza, di fronte ad ogni autorità oppressiva, nel suo senso così concretamente corposo della realtà e nel suo gusto, per un sapere che fosse, sempre e prima di tutto, capace di agire sulle cose, per riaffermarne il possesso umano. Maestro e frate, soggetto a discipline dure e rigorose, egli fu infatti, in primo luogo, un uomo deciso ad eseguire fino in fondo la propria missione, a difendere sia la propria libertà di sagace indagatore dell’ordine naturale, che il proposito di propagare quelle scienze, quelle arti e quelle tecniche, che gli sembravano più proficue per il bene universale della comunità cristiana.
Se aveva vestito la grigia e ruvida lana del saio, era stato, non solo per la profonda convergenza tra i suoi ideali religiosi con l’intima vocazione riformatrice del moto francescano, ma soprattutto perché aveva sperato di trovare in una tale congregazione di umili e di dotti, di popolani e di teologi, l’unica forza, capace di accettare un tipo di cultura pragmatica ed attiva, non fatta di inerte contemplazione, bensì di fattiva zelante volontà, per operare, con forza, nel mondo. In tale ottica, anche la sua professione di ecclesiastico era quindi solo un episodio, per quanto assai importante, spinto forse inizialmente da necessità economiche, ma basato su di una complessa storia intellettuale, che aveva origini, saldamente radicate e di certo anteriori alla sua entrata nell’ordine monastico. Né tantomeno Ruggero Bacone, “rifondatore” del metodo scientifico, collegato a pratiche occulte ed a tradizioni alchemiche, pur dedicandosi, tra il 1266 ed il 1268, nella sterminata stesura di una risposta a Papa Clemente IV, aveva dimenticato le lontane emozioni dell’infanzia, della adolescenza, dei primi insegnamenti, degli studi, degli ambienti e delle personalità incontrate, per oltre quarant’anni, in una società che stava lentamente, ma inesorabilmente, mutando di fronte ad una cultura che, a lui, sembrava ancora incapace di adempiere ai propri compiti più necessari.
Caduto il sogno della pacifica unità cristiana, tramontato il mito della suprema monarchia del pontefice-sapiente, la figura di Ruggero Bacone apparve ai posteri come quella di un ardito precursore, deciso a non arrestarsi ad alcuna barriera nella sua libera intelligenza della natura. Una figura, la sua, rubata dalla letteratura moderna, con stile fantascientificamente romanzesco, e catapultata nel libro “Doctor Mirabilis”, uscito nel 1964 (non edito in Italia), di James Blish, un biologo e scrittore statunitense che, tra l’altro, subito dopo la guerra, divenne editor scientifico della compagnia farmaceutica newyorkese “Pfizer”, oggi conosciutissima e citatissima. O figura di personaggio reale, legata a quella immaginaria di Frate Guglielmo da Baskerville, che si definiva suo discepolo, nel giallo storico del 1980, “Il nome della rosa”, scritto da Umberto Eco. Tutto ciò fu, nella storia, lo strano frate inglese.