Le mani, non la mente


Sembra incredibile che il mondo delle attività manuali ed artigianali, molti secoli fa, sia sceso in campo per fronteggiare, se non ribaltare, quello incontrastato del pensiero filosofico tradizionale. Un mutamento profondo, nelle ideologie, accompagnò gli sviluppi della tecnica ed il progressivo affermarsi delle “macchine”. Già dalla metà del 1400, negli scritti degli artisti, degli sperimentatori, nei trattati di ingegneria balistica e mineraria, così come in quelli delle fortificazioni e delle costruzioni navali, si fece strada una nuova considerazione del lavoro, della funzione culturale delle attività meccaniche, del significato che, anche ai fini della conoscenza, ebbero i processi artificiali di alterazione e di trasformazione della natura. Emerse, d’altro canto, una nuova valutazione della creatività e la cultura non coincise più con l’orizzonte delle arti liberali, che abbandonò l’antica concezione della scienza, come ricerca, che nasceva solo dopo la realizzazione delle cose strettamente necessarie alla vita. L’idea del sapere come costruzione, l’assunzione del modello “strumento” per la spiegazione e la comprensione dell’universo fisico, l’immagine di Dio come “orologiaio”, la tesi che l’uomo potesse conoscere solo ciò che lui stesso aveva costruito, erano affermazioni strettamente connesse alla penetrazione, nel mondo dei filosofi e degli scienziati, di un nuovo modo di considerare la “pratica” e le “operazioni”.
Bernard Palissy (1510-1589), celebre ceramista francese, si chiedeva, con ossessione, se un uomo, che non aveva mai letto un solo libro scritto da un filosofo, sarebbe stato realmente in grado di conoscere le manifestazioni naturali della vita. Lui, che era partito come apprendista vetraio, dopo aver cercato e scoperto il segreto dello smalto, da applicare alle ceramiche, era giunto al vertice della celebrità, per poi cadere in rovina. Nella sua vita avventurosa, aveva progettato numerosi macchinari di cottura, che però non riuscì mai a realizzare. Patì la fame e fu più volte imprigionato. Morì di stenti, tra le anguste mura della Bastiglia. Nella sua opera, “Discours admirables sur la nature des eaux et fontaines” (Ammirabili discorsi sulla natura delle acque e delle fontane), un’incontenibile raccolta di invettive contro la “saccente cultura” dei magnifici cattedratici della Sorbona, edita nel 1580, espresse chiaramente il concetto dell’assoluta similitudine tra filosofia ed arte di osservare la natura, arte che, secondo lui, non era in alcun modo patrimonio dei dotti e dei pensatori, ma nasceva dal solo culto per le cose, respingendo, altresì, con accanita violenza, la cultura proveniente dai testi e dalla tradizione filosofica. Alla domanda, che si era posto, Palissy rispose dunque affermativamente, dicendo: “Ti posso assicurare, caro lettore, che nel mio laboratorio d’arte, imparerai più filosofia di quanta non ne impareresti in cinquant’anni, leggendo le teorie e le opinioni dei filosofi antichi [lett.]”. In quelle poche righe, senza dubbio permeate di ingenuità, ma non per questo meno significative, era presente l’embrione dell’ideale centrale del pensiero di baconiano, l’assoluta necessità di sostituire il culto dei libri con il culto della natura, restaurando la possibilità di un “fecondo connubio con le cose”. È probabile che il sedicenne Francesco Bacone, durante il suo soggiorno a Parigi, avesse frequentato le lezioni pubbliche di agricoltura, mineralogia e geologia, impartite proprio dal ceramista francese, e sicuramente pensava a lui quando scrisse, nel 1577, che “solo di tanto in tanto accadeva che un artigiano, eccezionalmente intelligente ed ambizioso, si fosse dedicato ad una nuova invenzione e, di regola, si fosse rovinato in tale tentativo [lett.]”. Palissy non era certo un uomo colto. Era un artigiano, per l’appunto, che a suo dire aveva letto Vitruvio (80-15 a.C.) e qualche trattato dello svizzero Paracelso (1493-1541) e dell’italiano Gerolamo Cardano (1501-1576), portando alle estreme conseguenze la tesi, che il libro della natura fosse straordinariamente più ricco e complesso di qualunque pagina scritta. E proprio da questa forma di primitivismo, trasse forza la sua violenza polemica, contro gli spregiatori delle arti meccaniche e del lavoro manuale. La sua invettiva assunse, non a caso, le caratteristiche di una presa di posizione politica e di una violenta protesta contro l’ingiustizia sociale.
Robert Norman, del quale non sono note le date di nascita e di morte, era un marinaio inglese che, dopo circa vent’anni trascorsi in mare, si era dedicato alla costruzione ed al commercio delle bussole. Ad un anno di distanza dalla pubblicazione dei “Discours” di Palissy, volle cimentarsi anche lui nella stesura di un volumetto, che intitolò “Newe Attractive”, sul magnetismo e sulla declinazione dell’ago magnetico (angolo generato dalle direzioni del Nord magnetico e Nord geografico). Norman definiva se stesso un “matematico incolto” che, nell’esercizio della professione marinara, aveva raccolto una quantità enorme di osservazioni sul magnetismo e sulla “strana e nuova proprietà della declinazione”. Tralasciando le riserve sulla sua scarsa cultura, decise di mettersi in gioco, sfidando le calunnie degli avversari e le critiche delle malelingue, per proporre alla considerazione del mondo, i risultati delle sue riflessioni e dei suoi esperimenti. Operava (affermava lui) per la gloria di Dio e per il vantaggio dell’Inghilterra, nonostante fosse un semplice uomo di mare, assolutamente incapace di sostenere un dialogo con degli studiosi o dare spiegazioni soddisfacenti, sulle “cause naturali” del magnetismo terrestre. La modestia di quella realtà, non impedì all’inglese di pervenire, in più punti, a risultati di rilievo. Tant’è che William Gilbert (1544-1603), un importante fisico britannico, fece moltissime volte riferimento all’opuscolo di Norman ed utilizzò nei suoi studi, quelli di “questo esperto marinaio ed ingegnoso artigiano [lett.]”. Artigiano, che aveva però ben chiaro il senso di una differenza e di una opposizione di fondo, tra le ricerche volte alle cose, e non alle parole, ed il sapere degli “uomini libreschi”, come li definiva, che negavano senso e validità alle osservazioni compiute dai tecnici e dagli operai. “In questo paese”, asseriva, “esistono molti meccanici i quali, nelle loro varie capacità e professioni, conoscono alla perfezione l’uso delle loro arti e sono in grado di applicarle ai loro diversi scopi, altrettanto efficacemente e più facilmente di coloro che vorrebbero condannarli….[lett.]. A Robert Norman, è stato intitolato, nel 1976, un cratere lunare, che porta ovviamente il suo nome.
In un filosofo “vero”, come lo spagnolo Giovanni Ludovico Vives (1492-1540), umanista fra i più dotti del tempo, oltre che teologo esperto, vivacemente in contrasto con il sapere scolastico, precettore presso la corte inglese ed amico di Erasmo da Rotterdam e di Tommaso Moro, si trovano espressi, con minore ingenuità, ma con altrettanta energia, quegli stessi concetti. Nel suo “De tradentis disciplinis” (Sulle discipline tradizionali), del 1531, egli invitava gli studiosi europei a porgere seria attenzione ai problemi tecnici relativi alla costruzione delle macchine da utilizzarsi in agricoltura, nella tessitura e nella navigazione, e a non vergognarsi ad entrare nelle officine e nelle fattorie, ponendo domande agli artigiani e cercando di rendersi conto dei dettagli delle loro opere. La conoscenza della natura non era, per lui, nelle mani dei filosofi o dei dialettici, ma in quelle dei contadini e dei braccianti, che operavano nella natura e per la natura. I pensatori si erano costruiti una serie di entità immaginarie, cui attribuire un nome dignitoso. Palissy, Norman e Vives, con diverse intenzioni, avevano, di contra, dato espressione all’esigenza, assai diffusa nella cultura del Cinquecento, di un sapere nel quale, l’osservazione dei fenomeni, l’attenzione per le opere, la ricerca empirica, fossero premiati rispetto alle evasioni retoriche, ai compiacimenti verbali, alle sottigliezze logiche ed alle costruzioni a priori. Esigenza che, accompagnata da una precisa consapevolezza storica, Andrea Vesàlio, italianizzazione di Andreas van Wesel (1514-1564), medico fiammingo considerato il fondatore della moderna anatomia ed autore del manuale anatomico “De Humani Corporis Fabrica”, aveva sempre manifestato, nei riguardi di un determinato ramo del sapere, sotto forma di protesta, di polemica e di esortazione. Infatti, la degenerazione evidente dei principi generali e l’abbassamento di livello della dottrina, apparivano collegati alla separazione, progressivamente rafforzata, tra tecnica e scienza, tra lavoro manuale ed elaborazione scientifica. Egli, tra l’altro molto legato alla tradizione culturale italiana, lottava per la convergenza, nella medicina, della teoria e dell’osservazione diretta. Polemizzava con la figura del professore, la cui sapienza si risolveva tutta in parole, relegando quella del “sezionatore” al rango di macellaio. La sua protesta, contro quelle “cornacchie”, non era però un caso isolato. In quel giro di anni, era presente, in tutti i maggiori esponenti della cultura europea, la tendenza a sostituire un’educazione prevalentemente letteraria o retorica, con un tipo di insegnamento, che desse importanza preponderante alla preparazione tecnica ed alla formazione professionale. Nulla, del resto, di più attuale.
Negli scritti di un ceramista parigino, di un marinaio inglese, di un filosofo spagnolo e di uno scienziato fiammingo, presero vigore tutta una serie di temi comuni, da utilizzare come manuali per artigiani, ingegneri e tecnici in generale, ai quali venne riconosciuta la dignità di fatti culturali. Gli uomini “colti” dovevano quindi rinunciare al loro tradizionale disdegno per le “operazioni” e per la “pratica”, abbandonare ogni concezione meramente retorica e contemplativa del sapere, volgersi allo studio ed all’osservazione delle tecniche e delle arti. La polemica contro i “pedanti” e contro il sapere libresco si rovesciava in un nuovo tipo di conoscenza. La diffusione raggiunta da quelle idee, non deve far pensare che esse fossero prive di una carica culturalmente rivoluzionaria. Quella valutazione delle arti meccaniche, il riconoscimento di un “debito” del sapere scientifico verso i procedimenti della tecnica, furono assorbiti totalmente da altri, come Bacone, Harvey, Galileo e Boyle, e ed era una considerazione che comportava, in ultima analisi, il rifiuto di quel concetto di scienza che, pur da mille parti incrinato, era rimasto vivo ed operante per secoli. Per avere chiaro il significato di certe prese di posizione e di certe appassionate “difese”, gioverà rendersi conto che esse non erano rivolte solo al passato o alla tradizione. Per molti secoli, fino a tutto il Seicento ed oltre, il disprezzo provato per chi esercitava attività manuali era traferito all’attività stessa, posta in coda alla scala dei valori sociali. Nel “Dictionnaire Française”, del 1680, alla voce “mécanique”, era scritto: “termine, parlando di determinate arti, che significa ciò che è contrario a liberale ed onorevole. Ha senso di basso, villano e poco degno di una persona onesta..[lett.]”. Aristotele, peraltro, aveva escluso gli “operai meccanici” dal novero dei cittadini.
Polemizzando contro tali rappresentazioni, rifiutando l’immagine di una natura concepita con rigida gerarchia di forme, Palissy, Vives, Norman e Vesalio contribuirono, indipendentemente dalle loro particolari inclinazioni ideologiche, ad una distruzione culturale che, nella veneranda visione del mondo, non fu certo priva di conseguenze e riflessi “politici”.