Quel Libro Rosso, tanto inutile quanto fatale


Quando la Regina Anna d’Austria, rimasta vedova di Luigi XIII, il 14 maggio 1643 divenne reggente per il figlio Luigi, non vi furono, per lei, altre parole, se non “com’è buona la Regina, è tanto generosa!”. Quel giorno, la corsa della Francia si arrestò ed il volo di tutte le classi sociali, nonostante il ricordo della dura amministrazione condotta dal Cardinale Armand-Jean du Plessis, Duca di Richelieu, arbitro della politica, ricadde su se stesso. Ma perché così buona? Perché colmava di benefici la folla scalpitante, che si assiepava attorno al Palazzo e la nobiltà, che sotto Sua Eminenza si era sempre tenuta alla debita distanza, accorreva, domandava, otteneva, prendeva e saccheggiava. Quantomeno, pretendeva di essere esentata dalle imposte e lo ottenne. E così, il povero contadino, che con enormi sacrifici era riuscito ad acquistare un po’ di terra, rimasto il solo a pagare, si vide costretto a rivendere tutto, tornando ad essere fattore, mezzadro o povero servo.
Salito al trono, nel 1654, a soli sedici anni, Luigi XIV, il “Re Sole”, cercò di essere rigido ed intransigente, come si addiceva ad un vero monarca assoluto. Nessuna esenzione dalle imposte, per nessuno. Poi, col crescere e col passare del tempo, cambiò atteggiamento e diede ordine al suo Ministro delle Finanze, Jean-Baptiste Colbert, di cancellarne circa quarantamila, di imposte, diventando sempre più benevolo, sempre più vicino alla “povera” nobiltà. Le offrì tutto, gradi, impieghi, pensioni, residenza a Palais-Royal ed anche il Castello di Saint-Cyr, per le aristocratiche signorine da consolare, attività che, peraltro, amava curare personalmente. I blasonati rifiorirono e la Francia arrivò allo stremo.
Quando venne il suo momento, nel 1774, anche Luigi XVI, come gli antenati, si dimostrò, inizialmente, duro e caparbio. Brontolone, iracondo, superficiale, si asteneva sempre dall’ascoltare le richieste di chicchessia. I cortigiani deridevano amaramente la sua durezza e le sue parole pungenti. Era, peraltro, coadiuvato da un pessimo Primo Ministro, l’ottuso Anne-Robert-Jacques Turgot, e la consorte, Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena, aveva su di lui un peso ininfluente. Poi, le cose cambiarono. Nel 1778, incominciò a cedere e non riuscì più a rifiutare nulla, né a lei né al fratello, il futuro Luigi XVIII. Oltretutto, l’uomo più gentile del regno, Charles Alexandre de Calonne, il Controllore Generale delle Finanze, mise, nel suo incarico, così tanto spirito e tanta grazia nell’elargire, regalare, quanto i suoi predecessori si applicarono nel negare e nell’eludere. “Maestà”, diceva alla regina, “se è possibile è cosa fatta, se è impossibile la faremo presto”. Lei, soddisfatta libera da ogni titubanza, acquistò la smisurata tenuta di Saint-Cloud e Luigi, così tirato fino ad allora, comprò quella di Rambouillet. Senza parlare poi della Contessa Diane-Louise-Augustine de Polignac, Dama di Compagnia della Principessina Elisabetta, che arraffò, senza pudore, beni e denaro in quantità inestimabile. Eppure, il citato de Calonne sapeva bene che, “per le spese, Sua Maestà il Re è il solo che possa dare ordini [lett.]”. La Rivoluzione guastò tutto ciò. Essa allontanò duramente il velo grazioso che ricopriva la rovina pubblica e lasciò scorgere la “botte delle Danaidi”, quell’insieme di azioni “faticose”, forse, ma presumibilmente non concludibili. Del resto, il Sire di Francia era troppo delicato per rifiutare, per affliggere le persone che accostava; dipendeva, in realtà, da loro. Alla minima sua velleità di economia, i cortigiani diventavano scontrosi, se non adirati, e gli tenevano a lungo il broncio. La sua resa era pertanto inevitabile. C’era anche chi si dimostrava più ardito e, parlando a voce alta, ferma e decisa, sfidava a brutto muso il sovrano. Un certo generale François-Henri de Franquetot de Coigny, orgogliosamente entrato nei moschettieri all’età di quindici anni, primo o secondo amante di Maria Antonietta, non accettando una piccolissima riduzione del suo considerevole stipendio, in preda ad un eccesso d’ira, si esibì in una grossa plateale scenata contro Luigi XVI che, per tutta risposta, si strinse nelle spalle e non rispose. La sera, confidò alla moglie: “Parola d’onore, se mi avesse picchiato, lo avrei lasciato fare”.
Nessuna nobile famiglia, riteneva opportuno, magari saltuariamente, risparmiare, né alcuna illustre madre, sul punto di dare un marito alla figlia o una moglie al figlio, evitava di sottrarre denaro dalle casse del regno. Il sovrano sosteneva: “Queste grandi famiglie concorrono allo splendore della monarchia, fanno lo splendore del trono”, e via discorrendo. Così Luigi firmava, forse tristemente, l’ordinanza di sussidio, annotando, su di un “Libro Rosso”, un “Livre Rouge”, una specie di registro personale delle entrate e delle uscite, “….a Madame….500.000 franchi”. La quale, se al momento dell’incasso, si sentiva dire dal Ragioniere Generale del regno, “non ho denaro, madame, mi dispiace!”, insisteva e minacciava, consapevole ovviamente di poter nuocere, perché magari godeva delle buone grazie della regina. E denaro usciva fuori. Sicuramente reperito tra quello destinato ai piccoli commercianti, oppure recuperato dalle oblazioni per gli incendi e le grandinate o, perché no, svuotando le casse degli ospedali. La Francia era di certo in buone mani. Tutto andava bene. Un così buon re ed una regina così amabile….
La sola difficoltà fu che, indipendentemente dai “poveri privilegiati”, che risiedevano a Versailles, esisteva un’altra classe, non meno nobile e ben più numerosa, quella dei “poveri privilegiati” di provincia, che non avevano nulla (dicevano) e non ricevevano nulla, capaci solo di lacerare l’aria, con le loro grida ed invettive. E questi, sotto sotto, assai prima del popolo, incominciarono la loro Rivoluzione. A proposito, c’era anche il popolo. Tra quei primi poveri e quei secondi poveri, che avevano comunque tanti beni di fortuna, effettivamente, si erano tutti dimenticati del popolo. La cosa, sembrava riguardare solo gli esattori delle tasse. In altri tempi, i gestori del denaro pubblico erano uomini integerrimi ed irremovibili. Ma sul finire del XVIII Secolo, erano diventati tutti filantropi, dolci, gentili e magnifici. Anche se, con una mano affamavano, con l’altra pensavano di nutrire. Avevano ridotto milioni di persone alla mendicità, le stesse persone alle quali facevano l’elemosina, sulle scalinate delle chiese. E si costruivano ospedali, per poi riempirli con quei disgraziati.
Raccontava, in un suo libro, François-Marie Arouet, sicuramente più noto come Voltaire, che Persepoli (Città dei Persiani), una delle cinque capitali dell’Impero achemenide (le altre erano Babilonia, Ecbatana, Pasargade e Susa), fondato da Ciro il Grande nel 520 a.C., aveva trenta “Re della Finanze”, che prelevavano denaro dai sudditi e ne consegnavano all’Imperatore solo una piccola parte. Quelle cavallette divoravano e facevano piazza pulita di tutto. Di conseguenza, per poter spremere un po’ di sostanza da un popolo così divorato, occorrevano leggi ferree, crudeli, penalità terribili, galere, forche e luoghi di tortura. Il lato più irritante del sistema consisteva nel fatto, che anche lì sussisteva la bontà del lontano Imperatore, la sua faciloneria. Tant’è, ad esempio, che i trenta re della Finanza concedevano, o vendevano, a buon prezzo le esenzioni dalle imposte. Il sovrano creava nobili, gli altri plasmavano impiegati fittizi che, con tale titolo, erano esenti dal pagamento dell’erario. Il fisco lavorava, quindi, contro se stesso. Mentre aumentavano le somme da versare, diminuiva il numero di coloro che sborsavano denaro. Il peso, distribuito su di un numero minore di spalle, si faceva sempre più grave. E poi, i due ordini privilegiati, clero e nobiltà, contribuivano, con quello che volevano. Il primo, eventualmente, con impercettibili doni, il secondo sulla base di quanto dichiarava, senza alcun controllo da parte dell’organo statale centrale. Quel popolo era, comunque, rassegnato a morire, a piegarsi alla tirannia di padroni locali. Però tutto ciò avveniva cinquecento anni prima della nascita di Cristo.
Ma, alla fine del 1700, quello francese si sarebbe dovuto rassegnare a soccombere, incredibilmente, sotto il peso della “bontà” dei governanti? Avrebbe continuato, forse, a sopportare la durezza di un Richelieu, ma come avrebbe potuto accettare la “bontà” dell’altro Cardinale, Étienne-Charles de Loménie de Brienne, Ministro delle Finanze e di un Calonne, trasparenti “contabili” di Luigi XVI? Soffrire, morire, sia pure! Ma soffrire per elezione, morire per colpa dell’arbitrarietà, per il fatto che la fortuna dell’uno consisteva nella rovina per l’altro, beh, era troppo, era veramente troppo! E come disse qualcuno: “Uomini sensibili, che piangete sui mali della Rivoluzione, e senza dubbio ne avete tutte le ragioni, versate dunque qualche lacrima anche sui mali che l’hanno prodotta!”. E così fu.
Quella gente, che si vide coricata sulla nuda terra, tra falsi amici, falsi padroni, falsi salvatori, falsa regalità e falso clero, gettò al proprio Sovrano un doloroso significativo sguardo, in silenzio, senza parlare. Uno sguardo desideroso di sapere come mai quel Re, venerato come Dio ed implorato prima di Dio, al quale, dal profondo della morte, aveva chiesto salvezza, speranza, amore, perché mai non aveva ascoltato? Per quella moltitudine era troppo tardi ormai e quel re perse la testa.
Ovviamente, le motivazioni, che diedero il via a quell’evento, iniziato dai “patrizi” e condotto a compimento dai “plebei”, assicurando l’avvento al potere di una borghesia, nata all’interno di quel mondo feudale, che essa stessa sgretolò, ebbero origini assai ben più complesse e variegate, che non quelle ironicamente banali, sebbene assolutamente veritiere, qui trattate. Di certo, contribuirono, non poco, ad alimentare la fiamma, di quella che fu una favola senza eroe, ma con un solo gigantesco protagonista, il popolo.
Senza ombra di dubbio, la Rivoluzione Francese, per la complessità della sua realtà sociale, politica, economica, culturale e scientifica, ha mutato il mondo ed ha inaugurato la storia moderna.