Nella crisi ucraina ognuno ha le sue colpe, buoni e cattivi


Il Gen. C.A. (ris.) Vincenzo Santo, che da questo numero collaborerà liberamente con WeeklyMagazine, ha redatto una eccezionale ed interessantissima disanima della situazione geopolitica ucraina dove come noto, sia pure senza confronto diretto, si stanno fronteggiando Russia ed “Occidente”.
Si tratta, come facile immaginare, di una situazione molto delicata e di non facile soluzione.

Del resto, come lo stesso Generale Santo lascia trasparire, è una partita che si gioca oramai da anni e su più scacchieri, dove nessuno è davvero scevro da errori e colpe.
La contesa sull’Ucraina assurta agli onori della cronaca recentemente è quindi solo una tessera di un puzzle molto più grande che coinvolge enormi interessi non solo territoriali ma anche energetici ed economici.
Il direttore.


Il ministro della Difesa, Guerini, in merito alla crisi russa, mi risulta abbia detto nelle scorse ore: “L’Italia farà la sua parte. Deterrenza sostenendo il dialogo”. Una banalità. Deterrenza come, con che cosa e, soprattutto, dove? Rimpiango quella uscita di Draghi su Erdogan di qualche mese fa, quando lo categorizzò come dittatore, ma di cui si può avere bisogno. Qualcosa del genere.
I nostri politici si sono abituati molto agevolmente a non dire nulla, anche perché quel nulla, mascherato da tweet e da slogan, comunque fa breccia nella totale ignoranza di un popolo tifoso.
Ma si sa, noi nel quadro internazionale ci siamo da tempo accomodati scodinzolando dietro ad altri. E godiamo delle pacche sulle spalle. Quello che diciamo in ambito internazionale alla fine conta ben poco, purtroppo. Draghi è una transitoria illusione, potrà governare meglio di altri come impiegare il denaro del PNRR, ma durerà per il tempo che sarà necessario. Partito lui, il contesto internazionale ci troverà come sempre impreparati. L’ultima impuntatura risale a Sigonella. Ormai non ci poniamo troppi problemi, se non quelli a corta gittata, il tempo di un like. Viviamo alla giornata, ci facciamo dettare le posizioni da assumere senza farci tante domande. Insomma, mi pare che manchi la “vision”.
E una prima domanda da cui partire sarebbe: cosa faresti tu al suo posto? Capire questo aiuterebbe a incamminarci verso l’individuare in prima approssimazione le azioni da intraprendere e, in seconda battuta, approfondendo, le conseguenze da sopportare sulla base di come, con che cosa e dove agire. Alla luce delle percezioni e dei pericoli delle false percezioni, che tanta parte hanno comunque nelle relazioni tra stati. Semplice. Tuttavia, parafrasando Clausewitz, nella vita, ogni cosa è terribilmente semplice, ma quel semplice non significa necessariamente che sia anche facile. E qui subentrano altri fattori, preparazione, cultura, esperienza, senso pratico e, soprattutto, umiltà.
Nella faccenda ucraina, come sembra, la diplomazia rimane all’opera. Putin non ha gradito le risposte arrivategli, ma rimane al tavolo, per il momento. Starà bluffando oppure aspetta che i terreni si ghiaccino di più per farvi scorrere più velocemente i cingoli dei suoi carri armati? Rimane una domanda a cui non si può rispondere. E poi, perché farlo? A che servirebbe?
Piuttosto, ma come mai siamo tornati a questo punto? Proprio per mancanza di umiltà, io dico. Diamo la colpa pure a Putin e ai suoi sodali in giro per il mondo. Personaggi politicamente spregevoli, magari, posso convenire, dei quali però o non abbiamo previsto le mosse oppure abbiamo sottovalutato le ragioni. O entrambe le cose.
Facciamoci un pizzico di esame di coscienza.
Noi occidentali, sull’onda del trionfo, e meno male, del nostro modello capitalista, liberista e libertario, viviamo nella presunzione di essere migliori degli altri e che questi altri, quindi, non siano alla nostra altezza e non meritevoli di attenzione. Peccato di protervia, rinforzato più recentemente sulla scia della dottrina Bush, forgiata nel segno dell’unilateralism e della preemptive war, ma addomesticando su questo preemptive war la modalità, vietata dal diritto internazionale, del preventive (attenzione, la formula semplificata italiana della “guerra preventiva” è fuorviante).
Un disastro, diciamocelo!
Quindi, nella faccenda ucraina noi occidentali ci costruiamo le “nostre idee”: riteniamo che Putin stia bluffando perché non può in realtà permettersi una guerra per ragioni economiche, tralasciando che invece potrebbe permetterselo spingendo sul nazionalismo russo e sull’ortodossia cristiana; crediamo che non abbia per nulla messo in conto la possibilità che Kiev attragga le simpatie occidentali e, quindi, che abbia sottovalutato la potenzialità di un intero fronte occidentale ben compatto e pronto a mettersi in trincea, scordandoci noi di fare l’appello di chi sarebbe veramente disposto a farlo; temiamo che possa prendersela con i suoi vicini del Baltico o con la Polonia, credendo che Putin e i suoi non sappiano cosa c’è scritto all’articolo 5 del Patto Atlantico; infine, che non abbia preso seriamente in considerazione l’eventualità di essere sottoposto a sanzioni disastrose, sottovalutando noi le potenzialità e le vie di fuga di un mondo globalizzato e inestricabilmente interconnesso.
Forse non ci è chiaro che siamo noi a essere stati presi di sorpresa e ora siamo, ahimè, in formato reattivo. Cioè, a rincorrere gli eventi, a dare risposte invece di chiederle. La realtà, come la verità, viene sempre a galla, in termini di sorpresa. Per via della nostra presunzione, la stessa che ci ha portati a non pensare, quindi a prevedere, e prevedere è potere, ma anche a credere ciecamente che il mondo giri assolutamente attorno a noi e che continuerà a farlo secondo uno schema unilaterale che ci sorride ininterrottamente sin dal crollo dell’Unione Sovietica e che ci consente di mettere comodamente e indisturbati sotto il tappeto le nostre magagne.
Da quel giorno, nel lontano 1989, l’etica dell’assoluto ha preso il posto dell’etica della responsabilità. Di conseguenza, ci muoviamo compiaciuti vincitori della Guerra Fredda, e questo vantaggio ci consente di non metterci nei panni degli altri. Del resto, dominiamo il WTO, la World Bank, l’IMF. Siamo più numerosi come democrazie nella totalità delle altre organizzazioni internazionali che contano, dall’OSCE all’OECD e financo nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite godiamo di un vantaggio numerico in termini di membri permanenti.
E “abbiamo imposto” al mondo lo SWIFT, che regola di fatto i bonifici internazionali!
Inoltre, piccole cose se vogliamo, gli hacker e i loro attacchi sono esclusivamente russi, cinesi, nordcoreani o iraniani, come se noi occidentali non fossimo capaci o non ci azzardassimo a farlo oppure se lo facciamo è solo a fin di bene.
Loro sono i cattivi.
Cadiamo pertanto nella trappola di dividere il mondo in buoni, noi occidentali, e in malvagi, nella circostanza Putin. Una narrazione che tutto sommato risponde bene agli scambi concettuali per i vari centri di pensiero di cui disponiamo, cioè i bar!
Un successo, infatti, aver “popolarizzato” la strategia. Noi italiani abbiamo messo nelle mani del pur bravo fornaio del nostro politicante dell’ultima ora il rifiuto del nucleare o delle perforazioni in Adriatico, e oggi ci guardiamo attorno attoniti, cercando qualcuno che paghi le nostre bollette dell’energia, magari con qualche bonus.
Non è un problema solo nostrano, è generalizzato. In Europa si sta ancora combattendo se inserire o no il gas e il nucleare nella tassonomia delle fonti su cui investire, alla luce di una transizione che si ritiene, stoltamente, possa avvenire solo con le pale e il sole.
L’incompetenza generalizzata a occidente ha preso piede modellandosi sui temi graditi alla folla. Quasi quasi ci verrebbe da dire a Putin “Vladimir, spero non te la prenderai se ti facciamo la guerra o se non ti venderemo più il pane, ma ti prego, non tagliarci il gas”. Qualcuno magari ci avrà anche pensato.
La nostra politica, volesse invece guardare le cose in modo più approfondito deve impegnarsi di più, e riprendere alla mano la competenza e il buon senso. E una gran dose di pragmatismo. Ma anche chi è chiamato a votare.
Io ritengo che nelle relazioni internazionali, quelle serie, non possa esistere questa discriminazione tra buoni e cattivi. C’è solo opportunità e convenienza. Se non altro “a priori”. Nel dopo, chi vince avrà pure il vantaggio di raccontare e imporre la propria di storiella, ma la verità, come detto, viene sempre a galla, prima o poi. Da qui l’importanza del ricordo. Un esempio? La ben nota “pistola fumante” di Saddam, mai trovata, ma che ha scombussolato quel pezzo di mondo e generato l’ISIS. Può bastare?
Un’altra domanda: Putin è un autocrate? Certo che lo è. Ma non è questo il punto.
Occorre essere duri con Mosca perché ci preoccupiamo che dopo il Donbass si accanisca contro Polonia o contro i Baltici? Dobbiamo esserlo perché non se la prenda con Finlandia e Svezia? Dobbiamo esserlo perché gli ucraini devono essere liberi di scegliere il “fronte occidentale”? Va benissimo, facciamo pure la faccia feroce ma cerchiamo di capire come renderla credibile. E se pensiamo di farlo sotto l’aspetto economico e finanziario, oltre che diplomatico, calcoliamone prima le conseguenze, non solo per i russi, ma anche per noi. Mosca è il quinto partner commerciale dell’Ue, mentre per gli Usa rientra a malapena nei top 30, e metà delle importazioni di gas naturale europee arrivano da Mosca. Tanto per cominciare.
Ma la domanda successiva è: tutto questo per Kiev?
Dalla nostra parte ci sono due potenze economiche e finanziarie, USA ed Europa, non c’è dubbio. Ma le sanzioni possono essere non risolutive se la vittima può contare su altre sponde. Sono anni che Pyongyang vi è sottoposto, o Teheran. Il mondo è globalizzato e terribilmente interconnesso. Sanzioni terribili vanno benissimo, ma non è detto che facciano tanto male solo a Mosca e non anche a un intero sistema bancario o assicurativo europeo. Per noi, ad esempio, UNICREDIT e Generali. E anche la chiusura dello SWIFT potrebbe essere aggirata. Basterebbe che la Russia desse vita al suo SPFS (System for Transfer of Financial Messages). Sarà anche dura all’inizio, ma magari funzionerà con i “propri amici”. E tra quegli altri non c’è la Papua Nuova Guinea, ma Pechino, una forza militare ed economica che ha invaso il mondo e che detiene il monopolio, o quasi, di molti metalli e terre rari, roba di cui non si può più fare a meno a livello globale. Sanzioniamo anche la Cina perché permette i bonifici con e da Mosca? Chiudiamo il mondo?
Se, invece, si accarezza l’opzione militare, occorrerà essere certi dei presupposti giuridici per l’intervento della NATO, oppure convincersi delle reali intenzioni di amici e alleati per costituire una “coalizione dei volenterosi”. Fare una semplice conta, insomma. E, anche qui, rendersi conto delle conseguenze umane ed economiche. Un’altra guerra sul territorio europeo è una cosa che saremmo disposti ad accettare per difendere Kiev e la sua sovranità? Io, francamente, nutro seri dubbi sulla compattezza “occidentale”. Ma sono pronto a ricredermi.
Ma allora, osserverà qualcuno, dobbiamo permettere proprio tutto e dare spazio al dispotismo più sfrenato e, addirittura, mandare indietro le lancette dell’orologio ai tempi di Yalta? Non dico questo, ma inquadrato il problema in tutte le sue componenti, e bisogna saperlo fare, occorre definire delle opzioni e individuare ciò che ci conviene fare. I più acculturati parlerebbero di costi/benefici. E di mezzo, mi spiace, c’è quella domanda su Kiev. C’è ancora chi crede che in queste cose “l’etica”, il modo con cui si valutano comportamenti e scelte, e nella circostanza in esame il sentirsi coinvolti nel difendere la libertà di un popolo nel decidere da che parte stare, abbia preminenza.
Purtroppo, non è così. Le questioni morali servono esclusivamente a mascherare i veri motivi di un’azione. La “Grand Strategy” si basa, come detto, su opportunità e convenienza. Nonché tanto pelo sullo stomaco.
Ora, se si è convinti che Putin non si fermerà alla sola Ucraina, o al solo Donbass, e si ritiene che questa sia un’opportunità e sia conveniente farlo ora invece di aspettare, allora lo si affronti seriamente. Si vada in trincea, dunque, ma non mi si parli di diritto di un popolo di chiedere liberamente di entrare nella NATO e, dopo, in Unione Europea. E poi, diamine, davvero si crede di esprimere deterrenza per qualche aereo rischierato in Romania o con qualche migliaio di elmetti donati agli ucraini?
Perché ancora non abbiamo schierato, per semplificare, almeno tre corpi d’armata al confine ucraino? Quella sarebbe deterrenza.
La verità è che oggi la vecchia strategia di accerchiare Mosca e indebolirla privando Pechino di un alleato “europeo”, e rompendo allo stesso tempo il pericoloso cordone tra Mosca e Berlino, ha trovato uno stop, Putin ha sparigliato le carte (ma anche Pechino). Lo “zar” ricorda bene le promesse di Baker e di Major che mai, una volta assorbita la Germania Orientale, ci sarebbe stato un ulteriore allargamento a est. Lui ha vissuto il collasso sovietico. E se n’è sempre lamentato ma nella sua testa non c’è l’Unione Sovietica ma l’Impero zarista.
La geografia ritorna con forza con le sue “fisiologiche” aree di influenza. Il mondo, infatti, è cambiato e sono bastati pochi anni. È lo stop di cui sopra.
Mosca, secondo un principio del “realismo classico”, tende a opporsi, ora che può, a ogni stato o coalizione che cerchi di assumere una posizione di dominio o che “invada”, tanto per semplificare e capirci, il proprio cortile di casa. Putin non permetterà che quelle menzogne si ripetano con Kiev. Ne andrebbe della sua credibilità. L’Ucraina è una sua linea rossa, piaccia o no. E le linee rosse, oltre a fissarle per se stessi, occorre avere l’intelligenza, la cultura e il pragmatismo di riconoscerle anche agli altri. Si può anche tentare di forzare la mano, ma avere il buon senso di tornare indietro, e rivedere il tutto, quando ci si rende conto che la strategia scelta è sulla strada del fallimento.
Un esempio. Se da un lato riteniamo che sia possibile aprire il territorio ucraino a eventuali schieramenti di missili USA, e ci meravigliamo che Putin lo voglia evitare con tutte le sue forze, ci vogliamo chiedere cosa ne penserebbero gli stessi americani se L’Avana dovesse offrire una base ai russi su cui schierare qualche Iskander, perché i cubani temono un attacco americano? Davvero si crede che non si aprirebbe un’altra crisi “dei missili”, la cui soluzione potrebbe essere ben diversa da quella di sessanta anni fa? E sul serio siamo convinti che il Mar dei Caraibi non sia il Mediterraneo degli USA?
Quindi, cercando di fare un’utile sintesi, lo spero almeno, la situazione oggi vede un Putin che conosce certamente i rischi di mettere in atto un’azione militare ma non può ritirarsi, il farlo è inaccettabile. Dall’altra parte gli americani che, come per i russi, sanno che calcare la mano è pericoloso. Ma, del resto, per tenere unito un fronte occidentale, che ancora oggi appare insicuro su cosa fare, e tener buoni i capricciosi alleati dell’est europeo, Washington non può far vedere alcuna concessione a Mosca. Come pare abbiano scritto. Pur nutrendo loro maggiori preoccupazioni per un quadrante un po’ più a oriente.
Nel breve spazio tra queste due posizioni c’è la diplomazia. Un’area sempre più ristretta però, non illudiamoci.
Sia chiaro, Putin non ha avanzato delle proposte, ma condizioni. E probabilmente aspetta solo che una sola di queste non venga accettata per passare alle vie di fatto, oppure accetterà di sedersi ancora al tavolo per far finta di dialogare, per poi dimostrare che la diplomazia non può funzionare.
Noi ora sappiamo che i russi non hanno apprezzato le risposte americane – lasciamo perdere, per carità divina, ciò che ha detto Stoltenberg, non fa testo – e siamo arrivati a un passo dall’avanzare scommesse, e al 50% si può “indovinare” oppure no.
Tuttavia, non possiamo giocare sullo scommettere che non accadrà nulla credendo di interpretare presuntuosamente “le convenienze russe”, scordandosi di quanto troppo spesso anche solo l’orgoglio abbia trascinato l’umanità al disastro. Dimenticando che quando si ha la sensazione di stare per perdere una partita, si è anche pronti al “male peggiore”. È la teoria del “prospetto”, quella che trent’anni fa Robert Jervis adattò alla guerra e alla pace prendendola in prestito dall’economia comportamentale. Cioè la ricerca e la scelta del rischio quando una delle proprie opzioni, per esempio quella di aver minacciato pervicacemente l’uso della forza, è una perdita sicura. Cioè, potrebbe pensare Putin, meglio una guerra adesso, costi quel che costi, che avere la certezza che tra una dozzina di anni, o meno, l’Ucraina diventi un campo libero perché gli americani vi schierino quello che gli pare.
Irrazionale? Mosca non se lo può permettere? Sciocchezze! Se fosse solo per pura razionalità, raggiungeremmo la “pace perpetua”. Ma la realtà e la mutabilità dell’animo umano ci dicono altre cose a dispetto anche delle nostre, pur comprensibili, speranze.
A margine, qualcuno ha lamentato che l’Europa sia rimasta assente. Che sorpresa, dico io. E non poteva essere cosa diversa. Anche se almeno la Germania la sua brava figura l’ha fatta, con il neo ministro degli Esteri, Annalena Baerbock, che ha frequentato un paio di tavoli nei giorni scorsi, senza peraltro concludere nulla. Ma forse era quello che intendevano fare i tedeschi, considerato che è chiara la loro posizione nel non contrapporsi con troppa animosità a Mosca. Lo hanno dimostrato opponendosi alla vendita o alla cessione di armamenti a Kiev, salvo qualche migliaio di elmetti, ma anche nel non consentire il sorvolo nel proprio spazio aereo ai voli con armamenti destinati agli ucraini. Il gas fa ancora la differenza ed è anche evidente l’imbarazzo di un loro approccio indeciso sul North Stream 2. Una Germania motore d’Europa sino a ieri, ma oggi con una compagine governativa che rappresenta, con socialdemocratici, verdi e liberali, una commistione troppo eterogenea per l’esercizio di un tale motore.
Siamo chiari, l’Europa non può fare nulla di significativo senza gli americani. Diciamo che una sua prova di maturità sarebbe invece quella di trovarsi il gas in alternativa a quello russo, già in flessione, invece di delegare gli americani a farlo. Piuttosto che vaneggiare transizioni energetiche improbabili senza il gas e senza il nucleare. Se la stoltezza italica, ma vedo che è un virus che colpisce anche altri popoli europei, non si fosse materializzata contro il nucleare o contro le trivellazioni in Adriatico, a quest’ora saremmo “energeticamente sovrani”, a parte qualche tonnellata di uranio che non è difficile reperire in quelle parti del mondo che sfuggono al “soffio dispotico” russo, o cinese.
I tempi, dicevo, sono cambiati e il mondo confortevole, per così dire, del modello unipolare è finito nel breve volgere di un paio di decenni. C’è una nuova realtà basata sulla “distribuzione di potenza”, che non postula necessariamente un equilibrio. Non ancora. Un vigoroso cambio di paradigma che, di conseguenza, privilegia, ritornando al passato, la capacità di concentrare la potenza a livello regionale più in fretta di chicchessia, anche di una superpower globale come gli USA. Vent’anni fa non eravamo in queste condizioni, ma l’entrata in gioco della Cina ha smosso gli equilibri. E la geografia, come ho prima accennato, ritorna con forza non solo perché riafferma le ambizioni sulle aree di influenza, vecchie o no che siano, ma aiuta chi, come Mosca, possa operare per linee interne.
I russi, infatti, nella faccenda ucraina, hanno dalla loro parte, e a molti “occidentali” ancora sfugge oggi e ne confondono il senso, sia readiness che responsiveness, per gli aspetti militari. E possono fare la differenza. Poi, occorrerà saper scegliere il momento.
Non sconfortiamoci, l’Occidente nell’insieme è più forte e più ricco e probabilmente anche meglio organizzato. Perciò militarmente potrebbe avere ragione in un conflitto condotto per restituire sovranità e libertà agli ucraini, ma a quali costi? Per Kiev?
E Washington io credo l’abbia capito; qualche calcolo se lo saranno pur fatto.
Si insiste sul fatto che uno stato abbia il diritto di chiedere l’accesso alla NATO. Certo, chiedere non costa nulla. Peraltro, l’articolo 10 del Trattato del Nord Atlantico dice che “… le parti possono, con accordo unanime, invitare ad aderire a questo Trattato ogni altro Stato europeo in grado di favorire lo sviluppo dei principi del presente Trattato e di contribuire alla sicurezza della regione dell’Atlantico settentrionale …”. Intanto si parla di “invitare” e non di “accettare o accogliere” una richiesta di adesione. E passi. Lasciamo pure da parte i principi, per cui sarebbe idoneo ogni singolo stato sul globo, ma abbiamo già le Nazioni Unite per questo. La parte importante riguarda quella specifica riguardante la “sicurezza della regione dell’Atlantico settentrionale”. Ora, che cosa abbia a che fare l’Ucraina con quell’area lo sa solo iddio. Non è serio, come poco serio è stato inserirne di altri dell’oriente europeo. Se lo si è fatto, è stato solo per “isolare” la Russia.
Certo, inizialmente lo scopo dell’allargamento a est era quello di applicare anche da quelle parti il modulo vincente già utilizzato per pacificare Francia e Germania, nella speranza di poter persino un giorno coinvolgere Mosca. E per limitare le voluttà nucleari degli ex satelliti sovietici. Ma la storica paura di un connubio tra Germania e Russia, come nei pensieri del buon Mackinder, ha poi giocato la sua parte.
Quello che adesso potrà accadere lo capiremo da ciò che farà o dirà Putin nelle prossime ore o giorni. O che farà dire. Perché è dall’inizio di questa faccenda che tutto è nelle sue mani. Pertanto, l’eventuale successo della diplomazia dipende da come sarà possibile consentirgli di fare marcia indietro senza perdere la faccia oppure a concedergli qualcosa che possa accontentarlo. Putin ha bisogno di rivendicare una vittoria per non invadere l’Ucraina e, ad oggi, in termini calcistici ha dalla sua due risultati su tre.
Accusare l’avversario fa parte del gioco. Tuttavia, riconosciamolo, noi occidentali abbiamo una ben più grave responsabilità, un peccato di gola, l’aver dimenticato che nelle scelte strategiche occorre sempre considerare la geografia, il contesto storico in cui si vive e cosa l’ha generato e, infine, le tradizioni e l’orgoglio di un popolo. Nonché la possibile paura avvertita dalla controparte. Quella che Putin avverte per un’ulteriore e fin troppo vicina democrazia, per lo più nel “suo” cortile di casa. Piaccia o no.
Infatti, anche la paura può rendere una guerra inevitabile. Una lettura di Tucidide aiuterebbe veramente tutti questi nostri politici a non ammorbarci l’animo con le loro banalità.
In conclusione, sono convinto che, ove non accadesse nulla ora o nei prossimi giorni, sarebbe solo perché qualcosa sarà stato concesso a Mosca. Putin non se ne andrà via a mani vuote.