Il più amato dagli spagnoli (1a parte)


“Poiché le pene di uno studente povero sono queste: primo la povertà, secondo, conseguentemente, la follia!”, scrisse una volta. Povertà e follia. Ma la follia è facile da incontrare ed un vecchio proverbio spagnolo assicura che abbiamo, in noi tutti, un po’ di poesia e di follia.
Sembra che, anche in Italia, nel XIV Secolo, vi fosse un tale Agnolo di San Gerardo, magro, affamato e pazzoide cavaliere, il quale, un giorno, per partecipare ad un torneo, decise di partire, dal suo paesello, alla volta di Firenze. Alcuni ragazzi, inverecondi, che abitualmente si prendevano gioco di lui, collocarono sotto la coda della sua giumenta, un fascio di cardi, facendola imbizzarrire. Cavallo e padrone, arrivarono, così, a Firenze, alla velocità della luce. Un’avventura simile, era capitata anche ad un altro cavaliere, a Barcellona, quando dei monelli misero, ancora una volta, sotto la coda del di lui scheletrico e malridotto mulo, di nome Ronzinante, un mazzo di ginestre spinose. Probabilmente, lo scrittore castigliano che la raccontò, scopiazzò dalle “Novelle” del trecentesco Roberto Sacchetti, tale storia, riprendendo la tradizione del racconto o dello scherzo, facile da inventare; lo stesso scrittore che diceva di sé: “Sono nato a Roma, nella Mancia e in Transilvania e nel villaggio di Montalvan”. E proprio in Italia, questi abbandonò la sua aria da studente povero, per prendere contatto con la cultura più raffinata del mondo. Conobbe le opere del Sannazzaro, del Tasso, di Bembo, Poliziano, Castiglioni, Ariosto, Pulci, e del Boiardo. Apparve subito chiaro, che la sua vera università italiana, la più importante e feconda, fu la vita di strada. Dell’Italia, lodò la grazia e la libertà. E lodò il vino, l’immensità di Roma, la bellezza di Napoli, le feste di Palermo, l’abbondanza di Milano, i festini della Lombardia e “…… gli splendidi cibi delle osterie, venga la maccatella [specie di frittella, n.d.r.], li pollastri e li macarroni”.
In terra di Spagna, era fortemente conosciuto il “romance” (composizione poetica propria della tradizione letteraria iberica), il cantare cioè di avvenimenti più o meno reali, storici o meravigliosi, in cui era già disegnata la figura di un cavaliere folle. Lo stesso nostro autore diceva di amare quelle storie, affermando che, comunque, “coloro che leggono molto perdono il cervello, poiché leggere “romances” è altrettanto pericoloso che leggere libri di cavalleria”. Tutto ciò non diminuisce di certo la sua altezza inventiva. Al contrario, egli appare come il compendio ed il cronista delle tradizioni, delle burle, dei divertimenti e della vita catalana dei suoi tempi.
Miguel de Cervántes y Saavedra, che era nato ad Alcalá de Henares, una trentina di chilometri da Madrid, il 9 ottobre 1547, scriveva, sul finire della vita, sorridendo ancora, all’apparenza contento; ma il suo cuore era stanco. Non rispondeva come prima. A volte si rattristava, nel vedersi così privo di amori. Quell’attrice, che gli aveva lasciata una figliola, Isabelita, o quella donna, Catalina, sempre vestita di grigio, lo avevano veramente seccato. Voleva ancora andare a caccia di sogni, alla ricerca di Dulcinea del Toboso, con l’aiuto di Sancho Panza. Il 17 aprile 1616, la morte venne a bussare alla sua porta, ma non entrò. Seduta al suo capezzale, solo Costanza de Ovado, l’amata nipote, poiché la figlia, stanca di mariti e di liti, si era ritirata in un convento di clausura. Poi venne il giorno 23 di quel mese e la nera signora lo portò via con sé, donandogli, però, quanto gli era stato negato in vita. Disse addio ai libri di cavalleria, ai poemi pastorali, ma non agli innamorati.
Gli spagnoli, anche quelli che non hanno mai letto il suo “El Ingenioso Hidalgo Don Quijote de la Mancha”, più sinteticamente conosciuto come Don Chisciotte, ostinatamente diranno di averlo fatto. Cervantes è sempre stato al passo con il tempo corrente. Non fu solamente uno studente povero, un soldato, un prigioniero in un campo di sterminio della speranza, un uomo trascurato dai potenti, senza fortuna, solitario, affamato. Egli fu uno dei tanti del suo popolo, un popolo che lo ha sempre sentito accanto, ringraziandolo per i proverbi della gente semplice, per il suo modo di parlare. Infatti, anche chi non sapeva né leggere né scrivere, ascoltava attento e ripeteva a memoria “romances”, canzoni, detti, storie e stranezze. Di certo, Sancho, il suo fedele borbottante scudiero, gli diede una forte mano e gli offrì la spalla su cui egli si appoggiò. Esiste una parola, in spagnolo, “jovial” (gioviale), che nei secoli, è stata attribuita al romanziere. Perché la sua forma fu particolarmente gioviale, aumentando di intensità, proprio nella vecchiaia, quando conquistò la giovinezza di ridere della società che lo circondava e realizzò quel modo così sottile di scherzare nel suo cuore, colmo di amarezze. Quella grazia, quello speciale “angelo”, gli venne dall’aver vissuto con il suo popolo.
Il buon Alonso Quijano, appassionato lettore di libri di cavalleria, impazzito a causa di tali letture, che decise di trasformarsi in un cavaliere errante, mutando il proprio nome in quello di Don Chisciotte, ma che, per ironia del destino, rischiava di diventare proprio lui “l’antichisciotte”, imparò la gloria di ridere della sua povera vita sballottata, assieme a quella di coloro che dovevano lottare, ogni giorno, contro i fieri mostri della fame e dei bisogni, imposti dai cattivi persuasori.
“Se scrivo tutto questo con il mio nome, tutti crederanno poco nel mio racconto”, pensò Don Alonso. Con quel nome, invece, coloro che avevano l’animo triste e malinconico, potevano ridere dell’hidalgo (nobile, da hijo de algo, figlio di qualcuno, “ricco”), di lui che non era altro che un matto, poiché cavaliere lo avevano armato, per scherzo, due servette di un’osteria, lui amante non corrisposto di Dulcinea, frutto solo dei suoi pensieri, e non coraggioso, come pensava di essere, perché tutte le sue battaglie erano scherzo e teatro. Avventure che, burlescamente, anche Miguel de Cervantes, finse di non aver scritto, affermando che il vero autore del libro era un certo Cide Hamete Benengeli, personaggio immaginario, di origini arabo musulmane. Si trattava di un’abile piroetta letteraria, “metanarrativa”, per dare più credibilità al testo, facendo credere, che lo strano protagonista del romanzo fosse una persona reale e la sua storia vecchia di decenni. È necessario ribadire il posto che Don Chisciotte ha, da sempre occupato nel cuore del popolo iberico. Nessuno dei suoi secolari lettori ha mai pensato di essere il baccelliere (un novizio, prima d’essere armato cavaliere) Sanson Carrasco, o Antonio il capraio, o Pedro Perez il sacerdote e neppure uno dei duchi. Ognuno ha sempre voluto assomigliare al “cavaliere”.
Anche Cervantes cercava di assomigliarli e si arrabbiava nel vedersi escludere dalle vittorie letterarie, con solo pochi trionfi al suo attivo. In quanto autore ambizioso e “moderno”, voleva scrivere il “best seller” del suo tempo. Non lo faceva per sé, voleva il grande pubblico. E si chiedeva se il volgo leggesse? Certo che no, rifletteva. Leggevano solo gli eletti. Ma il volgo non era un’espressione confusa, per lui: “E non pensate, signore, che io chiami volgo soltanto la gente plebea ed umile, ché tutti coloro che non sanno, siano essi signori e prìncipi, possono entrare nel numero del volgo”. Così si esprimeva nella sua opera, la farsa in un atto, dal titolo “El vizcaíno fingido” (Il finto biscaglino).