Jan Palach: il buio intorno alla torcia umana


Se cercate un Emiliano Zapata nella lotta per la patria e la libertà contro l’oppressione, andate a Praga. L’immagine speculare di Zapata, o di Che Guevara se volete, è un ragazzo di vent’anni, Jan Palach, l’unico sessantottino che pagò la Contestazione con la vita. Il 16 gennaio del 1969, Jan si dette fuoco in Piazza Venceslao davanti ai carri armati sovietici che avevano invaso la Cecoslovacchia. A differenza del Che, non esistono in giro magliette col suo volto e il gesto estremo di Jan Palach non è ricordato che da una lapide in piazza Venceslao. Nessuna agiografia, nessun cenno nei libri di storia dell’Europa cosiddetta “democratica”. Alle spalle di Jan Palach non c’è la fabbrica di statuette commemorative o di foto incorniciate per i turisti, ma solo la memoria stinta, silenziosa e composta dei praghesi, che come alcuni ragazzi del suo tempo ricordano senza clamore l’eroismo di un ragazzo coraggioso.
Eppure lui fu l’esempio più folgorante della rivolta contro il totalitarismo e l’oppressione dei popoli, il simbolo vivente – e morente – dell’amore di libertà fuso insieme all’amor patrio e il primo segnale al mondo del prossimo crollo del comunismo, quando il 68 si rovesciò nell’89 e cadde il Muro, scoppiò in Cina piazza Tienamen e a Praga ci fu la rivoluzione di velluto.
La sua disperata speranza ebbe un effetto dirompente nei Paesi oltre la Cortina di ferro, ma anche in una fetta d’Europa. Per la prima volta 600mila persone si dettero appuntamento a Praga per rendere omaggio a quel ragazzo. Ci andarono anche dall’Italia molti giovani anticomunisti. Gente che arrivava persino a piedi perché nei treni e nei mezzi pubblici i militari sovietici e i poliziotti li avrebbero bloccati. Faceva freddo come ogni gennaio praghese. In alcune zone pioveva a dirotto, in altre nevicava; ma la gente arrivò in corteo a Praga per un giorno in mano agli studenti.
Una pagina indimenticabile, eppure dimenticata. Tutto rimosso, come il comunismo. Tutti inneggiano alla libera circolazione dei capitali e dei turisti a Praga ed esaltano l’allargamento dell’Europa a est. Dimenticano che alle origini di tutto ciò – e perfino del McDonald’s che c’è ora in piazza Venceslao – c’è il tragico gesto di quel ragazzo che decise di dare la vita per sollevare i popoli contro i carri armati sovietici. Mai un Vinto riuscì a vincere in modo così maestoso e sconfinato, anche se postumo. La censura comunista cercò di cancellare quel mito e demolire la sua biografia; fece sparire perfino la lapide sul luogo della sua sepoltura, meta di pericolosi pellegrinaggi. E sparirono dai media i ragazzi che seguirono il suo gesto. L’oltraggio dell’indifferenza a volte eguaglia quello dell’intolleranza; l’uno reprime la memoria e la libertà, l’altro la deprime, ma gli esiti si somigliano maledettamente.
Ci fu anche l’omertà del Pci sulla rivolta, il silenzio della sinistra su Jan Palach, il disprezzo verso gli insorti e il silenzio del partito e de L’Unità sui dissidenti, come Jiri Pelikan, che fu poi adottato dal Psi di Craxi. Fassino notava che, al contrario, il Pci aveva sostenuto il premier Dubcek e il socialismo dal volto umano. Certo, fino a quando Dubcek fu al potere e tollerato dall’Unione Sovietica; ma quando arrivarono i carri armati e ci fu la rivolta, calò l’imbarazzato silenzio e prevalse la tesi ortodossa, sostenuta proprio dalla destra comunista di Amendola e Napolitano, che chi solidarizza con gli insorti fa il gioco della solita reazione in agguato Come dissero a Budapest nel ’56, e a Danzica e Stettino nel ’70.
Non dobbiamo del resto dimenticare che fino al ’78 i finanziamenti al Pci e all’Unità continuavo a provenire dall’Urss, e continuavano ad arrivare i contributi dell’Associazione italo-cecoslovacca. Non è bello, in fondo sputare nel piatto in cui si mangia: su Praga e Jan Palach il mea culpa non devono farlo solo i contestatori e gli extraparlamentari di sinistra…
Prima di uccidersi, Jan Palach aveva scritto su un quaderno scolastico a righe “Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprime la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo – Patria e Libertà – è composto di volontari, pronti a bruciarsi per la causa. Poiché ho avuto l’onore di estrarre il numero uno, è mio diritto scrivere la prima lettera…”. Firmato: la torcia n. 1.
Quel gesto colpì i  miei dodici anni e mi suscitò una curiosità ancora non sopita per ciò che accadeva oltre cortina. Io, giovane studente di seconda media iniziai a capire che non tutto era bello e pulito, e forse l’impegno politico degli anni del liceo prese piede proprio lì, in quella sera di gennaio quando a casa della nonna ascoltavo il telegiornale, e poi il giorno dopo quando ritagliavo la foto di Jan Palaci e la incollavo nella mia camera, quasi un simbolo dell’ammirazione che mi suscitava quel giovane eroe. Compresi quanto abissale fosse la differenza tra chi metteva in gioco tutto se stesso nel nome della patri e della libertà e chi da noi si limitava a mettere in gioco la libertà borghese altrui di andare a teatro o indossare le pellicce. Nel suo libro sul ’68 Marcello Veneziani osserva che “i sessantottini incendiarono il mondo pensando a se stessi, mentre Palach incendiò se stesso pensando al mondo, come Josef Kudelka che si pose inerme davanti ai panzer sovietici”.
La gente però non capì. Il vignettista Giovanni Mosca disegnò due borghesi che commentano così il fatto: “Gioventù bruciata”. Battuta vecchia, tra l’altro, usata fin dai tempi di Giovanna d’Arco. Ma l’incomprensione di allora ha condotto alla rimozione di oggi: la torcia n.1 dista anni luce dalla globalizzazione e dai suoi miti.
Resta da chiedersi: Palach ha davvero trionfato oppure la sua resta una tragedia sepolta nell’oblio? Ha senso modificare il corso della storia spezzando il corso della propria vita?
Secondo il comune senso del presente, fondato su inesistenza di simboli e ideali e spinto alla satira sugli eroi, sarebbe stato meglio avere oggi un ignoto sessantenne di nome Jan Palach, professore di filosofia sulla via della pensione, piuttosto che un mito semidimenticato nel buio della storia. Il buio oltre la torcia.
Ma se vi capita di andare a Praga, risalite con tranquillità la lenta pendenza di Václavské náměstí, fermatevi un attimo ad ammirare la statua del re santo, superate la strada che la percorre in cima e salite sul marciapiede dinnanzi al Museo Nazionale. Proprio lì, su marciapiede, vi sembrerà di vedere il selciato smosso, quasi che un’entità ctonia abbia spinto dal basso per cercare disperatamente di uscire. Vedrete che su quei sampietrini è fissata una croce sbilenca, e quasi sempre una rosa rossa campeggia sul selciato.
Allora inchinatevi e onorate il luogo del martirio di Jan Palach.