Guerra e pace, croce e delizia della Chiesa


Disse, un giorno, Mons. Angelo Roncalli, il futuro Pontefice, e non solo: “La guerra è un periculum enorme. Per un cristiano, che crede in Gesù e nel suo Vangelo, una iniquità e una contraddizione. A peste, fame et bello libera nos, Domine”.
Nel maggio 1915, Don Angelo venne richiamato al servizio militare e destinato ad un ospedale di riserva, un seminario requisito a Bergamo. L’anno successivo, ottenne la nomina a Tenente Cappellano e, contemporaneamente, fu posto a dirigere l’ufficio diocesano per la raccolta di notizie sui prigionieri di guerra. Nel suo libro “Il Giornale dell’Anima”, una vastissima raccolta, mai interrotta, di scritti e note spirituali, dove egli racchiuse, dal 1895 al 1962, l’intera vita di un sacerdote divenuto papa, alla data 23 maggio 1915, è scritto: “….questo solamente voglio, la volontà di Dio in tutto e per sempre, e la sua gloria nel sacrificio completo del mio essere”. Egli riteneva, infatti, che solo così si sarebbe mantenuto all’altezza della sua vocazione, dimostrando, tra l’altro, il suo vero amore per la Patria. Al fratello Zaverio, nel dicembre 1916, confidò che, essendo accompagnato, assieme ai suoi, dalla presenza costante del Signore, nessuno di loro “aveva paura della fame, del freddo, della malaria, dell’Albania e dei tedeschi”. In lui non si trovavano gli ondeggiamenti del clero, combattuto tra la condanna, di Benedetto XV, della guerra come “strage inutile” dell’egoismo nazionalistico ed il sentimento di rispetto verso i pubblici poteri, impegnati nello sforzo bellico.
Allo scoppio delle ostilità, il campo cattolico propendeva indubbiamente per la neutralità assoluta, ma con analisi diverse. Vi fu chi assumeva atteggiamenti alla Italo Balbo, dichiarandosi per l’integrità del vecchio impero asburgico, come baluardo di civiltà cristiana contro gli slavi, e chi, invece, convinto neutralista come Guido Miglioli, condivideva la generalizzata posizione dei contadini, contrari a quel conflitto, come lo erano stati per quello libico e per la politica coloniale, una posizione, del resto, molto vicina a quella dei socialisti. C’era, poi, chi utilizzava in senso opportunistico il neutralismo, ma di fatto era filogovernativo. È noto, del resto, che lo Stato, per attirare i contadini all’idea bellica, prometteva loro le terre e le cosiddette “Leghe Bianche” (sindacato dei mezzadri contro i proprietari terrieri). Per darne forma concreta ed immediata, si stava infatti cercando di abolire il sistema mezzadrile, sostituendolo con una conduzione diretta di “affittanza” e, nelle zone a conduzione salariale, con un conduttore non più padrone. Don Angelo si schierò con la grandissima maggioranza dei vescovi e con la posizione assunta dall’Unione Popolare (presieduta dal Conte Della Torre), che esortavano i cattolici all’obbedienza delle leggi, spronandoli all’azione assistenziale nelle retrovie del fronte, una linea ispirata più ai fatti che alla cultura, anche se l’interventismo italiano fu tutto percorso di spunti anticlericali. Le organizzazioni cattoliche, dopo l’intervento dell’Italia, dichiararono esplicitamente di voler compiere il loro dovere di cittadini, senza esitazioni, partecipando, anche a titolo personale, alle responsabilità del governo. E fu Filippo Meda, il primo “ministro cattolico”, il quale cercò di far coesistere il messaggio pacifista di Papa Benedetto XV con la partecipazione allo sforzo di un paese in guerra.
E così l’interventismo ricevette un colpo mortale, con la prima enciclica del nuovo Papa, “Ad Beatissimi Apostolorum Principis Cathedram”, con la quale il Vaticano cercò di far superare “i dissensi e le discordie”, dopo la violenta reazione antimodernista. Vennero rielaborati gli statuti dell’Unione Popolare e venne costituita una giunta generale per l’azione cattolica italiana, che elesse suo segretario, Don Luigi Sturzo. Il 1° agosto 1917 venne diramata una “Nota Pontificia”, che suscitò ovunque immensa commozione, senza tuttavia sviluppi concreti. Il Ministro degli Esteri Sidney Sonnino, decisamente diffidente, per eredità risorgimentale, verso la Santa Sede, ebbe una reazione durissima in Parlamento, così come violento sulla stampa, contro Benedetto XV, fu il giornalista Benito Mussolini. Si dissociarono, naturalmente, la lista dei parlamentari cattolici e della giunta per l’Azione Cattolica Italiana, senza però portare incrinature alla concordia ed alla collaborazione sociale, tenuto conto delle gravi notizie, che arrivavano dal fronte orientale giuliano. Lo storico Gaetano Salvemini, che non era di certo tenero nei confronti del Vaticano, scrisse che Il Papa aveva trovato la Chiesa intimamente divisa, a causa della persecuzione selvaggia che Pio X aveva perpetrato contro i modernisti, e disorganizzata da cima a fondo, per le passioni cieche della guerra. Ma anche che, l’instancabile generosità con cui il nuovo Pontefice si era dedicato a soccorrere i prigionieri e gli ostaggi civili di tutti i paesi belligeranti, senza distinzione tra ricchi e poveri, tra cattolici e non cattolici, doveva essere assolutamente ricordata con ammirazione, da chiunque avesse senso di umanità. In piena guerra, Benedetto XV chiese, per voce del suo Segretario di Stato, Cardinale Pietro Gasparri, la soppressione del servizio militare obbligatorio. Quella data, aveva affermato, con energia, la doppia necessità morale dell’arbitrato e del disarmo, cosicché “la forza materiale delle armi, sia sostituita dalla forza spirituale del diritto [lett.]”. E, per prevenire le infrazioni, chiariva Gasparri, il Santo Padre suggeriva di stabilire, come sanzione, il boicottaggio universale contro l’eventuale oppressore. Sapendo bene che i conflitti, troppo spesso, erano nati da artifici all’interno delle cancellerie, l’anziano arcivescovo di Bologna, Giacomo Della Chiesa, aveva denunciato, come indiretta causa, l’imperialismo economico, proponendo, pertanto, che dovesse essere riservato al popolo, tramite un referendum, il diritto di scegliere la pace o la guerra.
Nel 1918, Don Angelo Roncalli, dopo aver confortato ed aiutato migliaia di feriti, dismise l’uniforme e tornò all’insegnamento, accettando nel contempo la direzione del pensionato studentesco, su invito del nuovo primate di Bergamo, mons. Luigi Maria Marelli. Nel 1919, nacque il Partito Popolare Italiano, ad opera di don Sturzo, per rispondere alle recenti esigenze, che si erano andate maturando nel movimento cattolico, sia in senso positivo, che negativo. Il nuovo partito rivendicava la libertà religiosa, della scuola e di associazione. Rifiutava l’imperialismo in politica internazionale, chiedeva l’estensione del suffragio universale anche alle donne, sollecitava la rappresentanza proporzionale, per distruggere il clientelismo, proponeva una legislazione sociale, per portasse gli operai alla proprietà dei mezzi di produzione, i contadini all’estensione della proprietà ed indicava i mezzi per la lotta contro l’analfabetismo e la burocrazia. Il PPI, che si asteneva dal dichiararsi cattolico, pur ispirandosi al cristianesimo, affermava la propria autonomia dalla gerarchia ecclesiastica. Era evidente l’analogia tra la posizione del PPI e quelle assunte, qualche anno prima, dai democratici cristiani.
Scomparve l’Unione Elettorale, si sciolse l’Unione Economica-sociale e sorsero, in posizione autonoma, la Confederazione Italiana dei Lavoratori e le Federazioni Nazionali per le Cooperative Cattoliche, che si affiancarono al nuovo partito. Continuarono, invece, a svilupparsi, nell’ambito della Chiesa, la Gioventù Cattolica, l’Unione delle Donne e la Federazione Universitaria (FUCI). Pur ignorandolo, la Santa Sede non ostacolò mai il PPI. Secondo Sturzo, con lo scioglimento dell’Opera dei Congressi ed il conseguente distacco del politico dal religioso, il richiamo all’unità non poteva più essere posto. La nuova realtà politica nacque con uno schema di opposizione al liberalismo socialista e come reazione al vecchio anticlericalismo, mentre la rivoluzione russa di ottobre aveva imposto nuove collocazioni e nuove strategie, nelle forze politiche europee. Il Partito Popolare si trovò presto tra le strettoie del sistema generatore del fascismo, che ne soffocò la voce. In quegli anni di guerra e di fermento della classe operaia e contadina, il nostro don Angelo Roncalli dovette aver lungamente meditato sulla vocazione terrestre del cristiano, sull’umiltà come significato della terra, sulla pazienza con la storia umana, che è la stessa inesauribile pazienza di Dio.
Come scrisse sul suo “Giornale”: “Dopo tanti anni già trascorsi di sacerdozio, che sarà la vita avvenire per me? Voglio che siano anni di lavoro intenso, nelle braccia della santa obbedienza, ma senza un pensiero che trascorra al di là dell’obbedienza”.