Per simbolo, il Sole


Pieno di maestà, senza essere grande, possedeva una salute ed una vitalità a tutta prova, capace di assecondare, al tempo stesso, i suoi piaceri ed adempiere all’esercizio puntuale del “mestiere” di Re. Sua cugina, Mademoiselle de Montpensier, la “Grande Modemoiselle”, così ebbe a scrivere di lui, nel 1659: “Ha un’aria altera, nobile, fiera e gradevole, qualcosa di molto dolce e di maestoso nel viso, i più bei capelli del mondo, per il colore ed il modo in cui sono arricciati. Belle le gambe, grave e solido il portamento. Il più bell’uomo ed il più ben fatto del suo regno e certo di ogni altro [lett.]”.
Sta di fatto che quel sovrano, circondato dall’adulazione di tutte le donne di palazzo, non resisteva alle molteplici sollecitazioni ed alle esigenze di un temperamento vigoroso e sensuale. Del resto, la corte, a metà del ‘600 “nel Palais-Royal, non si era ancora irrigidita nell’austero cerimoniale, che diventò poi regola una volta trasferitasi a Versailles. Vi regnava un’atmosfera di giovinezza, di libertà, di galanteria e lo stesso monarca ne dava l’esempio. Dopo il tenero idillio con Maria Mancini, nipote di Mazzarino, ed il matrimonio politico con Maria Teresa d’Asburgo-Spagna, corteggiò per un po’ Enrichetta d’Inghilterra, moglie di suo fratello, Filippo I, Duca d’Orlèans, detto “Monsieur”. Nel 1661, divenne l’amante appassionato della giovane Louise de La Vallière e, nel 1667, si innamorò perdutamente dell’altera Athénais de Montespan, che gli diede ben otto figli. Pur dividendo ancora il talamo nuziale con la regina, che morirà nel 1683, ostentò pubblicamente i suoi amori, ma fu accuratamente attento a non perdere un solo briciolo della sua indiscussa autorità regale. Così espose il proprio pensiero al figlio Luigi, il Gran Delfino: “Se accade che cadiamo, nostro malgrado, in qualcuno di questi traviamenti, occorre, nondimeno, per sminuire le conseguenze, osservare due precauzioni, che io ho sempre praticato e con cui mi sono trovato benissimo. La prima, che il tempo che dedichiamo al nostro amore non vada mai a pregiudizio dei nostri affari, perché il nostro primo obbiettivo deve sempre essere la conservazione della nostra gloria e della nostra autorità, che non si possono assolutamente mantenere, se non in virtù di un lavoro assiduo. La seconda, che è la più difficile da mettere in pratica, è che pur abbandonando il nostro cuore, rimaniamo padroni del nostro spirito, che separiamo le tenerezze dell’amante dalle risoluzioni del sovrano. E che la beltà che fa i nostri piaceri, non abbia mai la libertà di parlarci dei nostri affari, né di coloro che proponiamo ad essi [lett.]”.
Di fatto, Luigi XIV, le “Roi Soleil”, Louis-Dieudonné de France, figlio di Luigi XIII, al quale succedette il 6 maggio 1643, ancor prima di compiere cinque anni, e di Anna d’Austria, membro della casata dei Borbone, fu sempre, e soprattutto, un sovrano, prima di essere un amante. Era fermamente convinto che la “professione” di re fosse grande, nobile, lusinghiera, una professione in cui era indispensabile sentirsi degno di adempiere rettamente tutti gli obblighi previsti. E ne fu degno, in primo luogo, per la sua applicazione al lavoro, trascorrendo lunghe ore nel silenzio di uno scrittoio, solo o a quattr’occhi con un ministro, partecipando a consigli, ad udienze di ogni sorta, quelle attività, costanti e tipiche, di un “padrone” che vuole tutto vedere e tutto sapere. Laborioso e puntuale, possedeva altresì un sorprendente autocontrollo, legato al suo senso di maestà reale. Si narra che, nel 1670, un cortigiano, di nome Antoine Nompar de Caumont, Duca di Lauzun, si adirò davanti a lui, fino ad ingiuriarlo. Luigi, fuori di sé dalla collera, in quel momento, compì forse l’azione più pacatamente scaltra della sua vita. Aprì una finestra e gettò fuori il suo bastone, dicendo che gli sarebbe rincresciuto molto colpire un “uomo di tali qualità e sorta”. Bell’esempio di padronanza emotiva, ma non di mansuetudine o di debolezza. L’indomani, Lauzun venne arrestato e gettato alla Bastiglia. Le sue qualità morali, secondo il pensiero del grande storico francese Ernest Lavisse (1842-1922), furono quelle di una persona, dopo tutto, ordinaria, un galantuomo come ve ne erano molti in quel tempo, sia a corte che in città. La sua intelligenza, senza essere “al di sopra del mediocre”, come scriveva il filosofo Claude-Henri de Rouvroy Conte di Saint-Simon (1760-1825), fondatore del socialismo francese, che di certo non lo amava, era media, dotata di un robusto buon senso e capace quindi di dettargli le soluzioni più sagge, sempre se non accecato dall’orgoglio. E fu proprio l’orgoglio, che dominò su di lui, costituendone la natura stessa. L’eredità spagnola materna vi giocò senz’altro un ruolo determinante, così come il fatto che, re fin dall’infanzia, egli si considerò sempre un essere a parte, investito di una dignità degna dell’unzione della consacrazione. Per di più, sentì sempre esaltare, intorno a sé, la grandezza della sua funzione regale. I sudditi, ugonotti o cattolici, gli ripetevano, a gara, che lui era l’immagine di Dio e che a nessun altro avrebbe mai dovuto rendere conto, se non all’Altissimo. Per i teorici dell’assolutismo, il monarca rappresentava l’incarnazione stessa dello Stato e godeva di ogni potere. A lui spettava un’incondizionata obbedienza, sotto la pena, non solo di lesa maestà, ma anche di sacrilegio. Allevato secondo tali princìpi, profondamente imbevuto della dignità reale e dei diritti e dei doveri che essa implicava, Luigi XIV si considerava effettivamente il “luogotenente del Signore sulla terra [lett.]”. Questa convinzione ispirò costantemente tutte le sue azioni, tutti i suoi pensieri e tutti i suoi gesti, anche i più banali e quotidiani, accettando di divenire l’oggetto di un vero e proprio culto. A dire il vero, quando scelse il “Sole” per emblema e “Nec pluribus impar” come motto, non fece che conformarsi alle lezioni inculcategli fin dall’infanzia, lezioni che sentì ripetersi per tutta la vita. Il solo limite a quell’orgoglio, fu la convinzione profonda, ma altalenante, che un giorno, per l’appunto, si sarebbe dovuto presentare al cospetto divino, anche se, tra i venti ed i quarant’anni, fu tutt’altro che devoto. Ostentava, senza vergogna, a dispetto dei Comandamenti della Chiesa, amori doppiamente adulteri. Nel pieno della giovinezza e della potenza, non pensò molto, pare, al giudizio del Creatore. Tuttavia, la sua pietà fu sincera, anche se inseparabile, ai suoi occhi, dalla politica. Gli capitava, a volte, a colloquio con qualche prelato, di confessare la sua pecca, non soltanto di giustizia, ma anche di prudenza e buon senso, quella di non venerare abbastanza colui di cui si sentiva “luogotenente”. Amava dire, che la sua sottomissione al Padre Celeste rappresentava la regola e l’esempio per quella che, da parte dei sudditi, gli era dovuta. Gli eserciti, i consigli di Stato e tutta l’attività umana, non erano altro che deboli mezzi per mantenersi aggrappato al suo trono. Benché ansioso di governare e di decidere autonomamente, era cosciente che un sovrano non avrebbe mai potuto fare a meno dei propri collaboratori. Fu ben attento nel sceglierli, tra la borghesia o tra i “togati” di recente nobiltà, affinché questi, dovendogli tutto, gli fossero incondizionatamente devoti. Non aveva interesse a prendere uomini di qualità più eminenti. Era per lui basilare, far sapere al popolo, proprio per il rango da cui li sceglieva, che non intendeva spartire con loro il proprio potere. E voleva che nutrissero speranze più alte di quelle che intendeva dare loro, cosa più difficile per chi proveniva da grandi casate. Il “Conseil d’en Haut” (lett. Consiglio dall’Alto), era il vero cuore pulsante del governo, ove venivano studiati i grandi problemi, sia interni che esteri. Coloro che ne facevano parte, avevano diritto al titolo di “Ministro di Stato” ed il fatto di essere Consigliere o uno dei quattro Segretari di Stato, non implicava, però, che necessariamente dovessero presenziare ad ogni riunione. Il Sire era libero nelle sue scelte. E così che, all’indomani della morte del Cardinale italiano Giulio Raimondo Mazzarino (1602-1661), francesizzato Mazarin, Primo Ministro del Regno, succeduto al Cardinale Armand-Jean du Plessis de Richelieu diciannove anni prima, non conservò come ministri che Michel Le Tellier, Segretario alla Guerra, Hugues de Lionne, Segretario agli Affari Esteri, e Nicolas Fouquet, Sovrintendente delle Finanze. Dopo l’arresto di quest’ultimo, colpevole di malversazioni, ma soprattutto vittima della gelosia ombrosa di Luigi e delle manovre tortuose di Colbert, proprio quest’ultimo lo sostituì, formando con gli altri due, la “triade” governativa. Jean-Baptiste Colbert aveva iniziato la carriera come uomo di fiducia del Cardinale, che lo aveva raccomandato a Luigi XIV. Intendente delle Finanze e Ministro dello Stato nel 1661, Controllore Generale delle Finanze nel 1665, assunse per più di venti anni, grazie alla sua sorprendente capacità di lavoro, l’immane compito di occuparsi, praticamente, di tutta l’amministrazione statale, eccettuati gli affari esteri, esclusivi di Lionne e quelli militari, dominio di Le Tellier e di suo figlio François Michel, nominato poi Marchese di Louvois, il quale, chiamato al consiglio nel 1672, fu il grande rivale di Colbert.
Luigi XIV, Re di Francia e di Navarra, per una sopraggiunta cancrena, conseguenza della gotta che lo affliggeva da alcuni anni, si spense il 1° settembre 1715, quattro giorni prima del suo settantasettesimo compleanno e dopo poco più di settantadue anni di regno. Prima di spirare, a coloro che erano vicini al suo capezzale, disse: “Perché piangete? Cosa credevate, che fossi immortale?”. Sovrano “ordinario” forse, felice prima e sfortunato poi, in parte per colpa dei suoi innumerevoli errori, ha svolto un ruolo di primissimo piano nella storia di Francia e d’Europa, per tutta la seconda metà del XVII Secolo ed oltre. Ha soprattutto lasciato un’immagine impareggiabile di come doveva essere un vero “sovrano assoluto”. E se non fu né un grande uomo, né un grande statista, fu di certo, e non solo per i suoi contemporanei, il grande ed unico Re Sole.