Non come certi politici dei nostri tempi


Cina. Il primo nome della letteratura: Confucio; il primo nome della storia del pensiero: Confucio; il primo nome di un “riformatore politico”: Confucio. Eppure, in senso stretto, non fu mai un letterato, non creò un sistema filosofico originale, non riuscì ad attuare una vera e propria riforma sociale. Ciò nonostante, la letteratura, la filosofia morale e politica di quel Paese, furono condizionate dal suo nome.

A differenza di Lao-tzu, l’immaginario (si ritiene) e mitico caposcuola del taoismo, egli fu un personaggio storicamente esistito. Apparteneva alla nobile famiglia K’ung, che risiedeva a Tsou, nello stato feudale di Lu. Gli fu dato il nome di Ch’iu. Dall’espressione cinese K’ung-fu-tzu, letteralmente il “Maestro K’ung”, i primi missionari gesuiti, quattro secoli orsono, una volta rientrati in Europa, latinizzarono, per raccontare di lui, il suo appellativo in “Confutius”. Ma la sua figura e la sua predicazione, con il passare del tempo, andarono mitizzandosi, sì da farne la prima pietra miliare da cui si distaccavano le vie del pensiero, della gestione statale e delle lettere. Divenne, e non solo per i suoi seguaci, il Maestro (tzu) per eccellenza, il prototipo del saggio. Le famosissime e citatissime frasi a lui attribuite, tutte inizianti con la formula “tzu-yueh”, avevano lo stesso valore vincolante dell’aristotelico “αὐτὸς ἔφαe”, tradotto da Cicerone in “ipse dixit”.
La sua forma mentis permeò venticinque secoli di storia onnicomprensiva cinese, finché, all’inizio del 1900, la maggior parte degli intellettuali si trovò concorde nel considerarlo responsabile di ogni arretratezza, in cui si dibatteva lo Stato. Divenne l’accusato principale, ma, paradossalmente, dopo una lunghissima serie di processi, ne uscì indenne, poiché, malgrado tutto, in un’infinità di aspetti della cultura e della locale vita politica contemporanea, comparivano atteggiamenti e schemi molto simili a quelli da lui contemplati. Se si sfogliasse la stampa cinese, tra il 1917 ed il 1925, si incontrerebbero, con frequenza, frasi del tipo: “Abbiamo detestato Confucio, perché pesava sugli spiriti della nostra nazione ed impediva loro di pensare liberamente. Abbiamo demolito Confucio, per conquistare la libertà di pensiero”. Indubbiamente, il cambiamento di giudizio fu dettato dalla constatazione che il Maestro, sia come personaggio, sia per certe sue idee, era, per l’appunto, ancora vivo ed operante in Cina. E lo stesso ancora oggi. Anche se non è forse il caso di sostenere che lo stato marxista cinese si sia potuto, e si possa, identificare con quello da lui vagheggiato, ma di sicuro, certe sopravvivenze confuciane sono state, e lo sono tuttora, studiate da specialisti ed opinionisti, non solo cinesi.
Ritornando all’anticonfucianesimo, era sorto, in quel paese ed in tempi più recenti, un cauto movimento revisionista, che culminò, nel 1961, in numerose riunioni di società filosofiche ed articoli di stampa. In molti, tra scrittori, intellettuali e giovani universitari, avevano preso parte a tali discussioni, dalle quali erano emersi i più disparati ritratti di Saggio. Da alcuni, venne etichettato come “sostanzialmente reazionario, perché era stato dalla parte dell’aristocrazia schiavista!” [lett.], da altri considerato un progressista, “perché si era fatto campione della nuova classe dei proprietari terrieri”, in opposizione all’aristocrazia. L’opinione che finì con il prevalere, fu quella che lo considerava un riformatore, abbastanza progressista, relativamente al periodo ed alla società in cui visse (dal 551 al 479 a.C.) e non certo un rivoluzionario. Fra le tante tesi, discusse con la terminologia politica attuale, la più originale è stata, forse, quella di chi lo ha definito “un uomo di centro, con inclinazioni per la sinistra”. In realtà, fu travisato dai suoi discepoli, caricaturizzato dai taoisti, che lo vollero convertito alla loro ideologia, odiato dai legalisti, quasi divinizzato dagli imperatori della dinastia Han e, come visto, responsabile, in età moderna, di tutte le sventure del suo popolo ed al centro di una recente polemica, per stabilire se la sua dottrina era da considerarsi di destra, di centro o di sinistra. Si potrebbe aggiungere, per un quadro un po’ più completo, che il 17 dicembre 1939, la stessa Chiesa cattolica riconobbe, con una “istruzione” della “Sacra Congregazione di Propaganda Fide”, che i cattolici cinesi potevano onorare, sia nelle scuole che nelle piazze e con delle cerimonie ad hoc, la figura di Confucio, perché manifestazioni di carattere civile e non religioso. Ora, quale prova migliore della sua moderna vitalità, se a distanza di più di duemilacinquecento anni dalla morte, si è continuato ad odiarlo, venerarlo, criticarlo e riabilitarlo, tutto con tanta eccessiva passione. Bisogna aggiungere, per completezza che, se il buddismo fu una religione panasiatica ed il taoismo rimase limitato perlopiù all’area cinese, la dottrina di Confucio si propagò, con prepotenza, alla Corea, al Giappone ed a tutta l’estesa penisola indocinese.
L’intento di chi scrive, è quello di presentare Confucio come uno dei protagonisti della storia del pensiero estremorientale e non delineare lo sviluppo storico del confucianesimo. Pur tuttavia non si possono lasciare sotto silenzio alcuni punti fermi, che testimoniano l’importanza della presenza del filosofo, al di fuori della sua terra, nell’Asia orientale di ieri e di oggi. Quando la dinastia cinese degli Han insediò, nel 108 a.C., quattro colonie in Corea, in pensiero della dottrina confuciana prese subito piede in quelle aree. Non a caso, uno dei primi documenti pittorici cinesi è il famoso cofano dipinto, rinvenuto a Lo-lang, una delle colonie, in cui sono raffigurate scene della virtù dell’amor filiale (hsiao), sentimento fortemente sostenuto dal Maestro.
Il confucianesimo fu studiato dai Coreani, soprattutto, dopo l’unificazione del paese, realizzata dal regno di Sinla, nel 717 d.C.. Furono, per la prima volta, importati dalla Cina ritratti di Confucio e dei suoi discepoli, che furono conservati nella Gug-hag (Scuola Nazionale), una scuola confuciana coreana, sorta nel 682 d.C., per volontà di studiosi locali che, con immani sforzi, contribuirono allo sviluppo di molte altre, sparse dovunque e talvolta tra loro contrastanti. E, dove si accesero dispute, queste furono così cruente che, nel XVI Secolo, vennero disseppelliti cadaveri decapitati, nei pressi di quasi tutte le scuole. Inoltre, le sette confuciane, in Corea, assunsero tutte le sembianze di partiti politici. Decaduto in età più recente, nel settembre del 1946, ottenuta la propria indipendenza, dopo il lungo periodo di occupazione giapponese, la Corea riabbracciò il confucianesimo, con la l’istituzione dell’Associazione Nazionale Confuciana (Seong-gyun-gwan).
Il Giappone, dal canto suo, guardò sempre alla Cina come ad una fonte di cultura, assorbendone elementi per rielaborarli in maniera spesso originale. Persino la sua Carta Costituzionale, così impregnata di buddismo e redatta in soli diciassette articoli dal Principe Shotoku, nel 604 d.C., si era ispirata alla dottrina confuciana; il riconoscimento di un unico sovrano sulla terra, sottoposto solamente al cielo, ne fu la prova più evidente. Fascino per i testi del Maestro che, nel secolo XVII, cioè nel periodo della dinastia Ashikaga, il confucianesimo, ancora una volta, venne utilizzato come base per il proprio sistema di governo. Lo intuirono anche gli Tokugawa (ultimo governo feudale del Giappone, durato duecentocinquant’anni), che se ne servirono per stabilire un nuovo ordine pubblico, basato su norme etiche ben precise. Ciò avveniva nel XVIII Secolo ed era al “neoconfucianismo di Chu Hsi”, che si ispiravano. Inoltre, la riscoperta di Confucio, in Giappone, incrementò il già sviluppato interesse per la sinologia (insieme di studi e ricerche che riguarda la cultura cinese) ed all’affermazione di un suo già forte primato culturale.
Confucio fu veramente, nel suo paese, il protagonista di venticinque secoli di storia politica e culturale, caratterizzandone, meglio di chiunque altro, la vita. Quando nel 1700 i filosofi occidentali scoprirono la Cina, essi si formarono un’idea tutta particolare di quella civiltà. Appariva il Paese dell’Utopia, tanto lontano da poter essere retto solamente da burocrati-filosofi, tanto lontano da essere preso a modello politico, per l’Europa allora in fermento. Terra, per antonomasia, di “saggi”, essa apparve un’ennesima deformazione del ritratto di Confucio, il saggio del villaggio di Tsou, che era riuscito a dare un’impronta ad una civiltà, come nessuno mai, al mondo, aveva fatto.
Se si volessero leggere pagine di elevata filosofia, probabilmente solo in quelle dei maestri taoisti si potrebbero trovare istituzioni ed accenti raffinati, sempre assenti nei testi piatti della scuola confuciana. Se si volessero leggere brani letterari, degni di un confronto con il meglio della letteratura universale, non lo si dovrebbe di certo fare nel contesto dei canoni dell’estetica letteraria confuciana. E, infine, se ci si volesse occupare di storia del pensiero politico cinese, ci si dovrebbe sicuramente indirizzare al più affascinante anarchismo taoista, più che allo stato burocratico confuciano.
Ciò nonostante, se ancora oggi qualcuno fosse interpellato, per fare il nome dell’artefice della caratterizzazione della civiltà cinese, dalla sua più remota antichità ad oggi, in tutti al mondo, ammiratori o no di Confucio, non potrebbero che pronunciare il suo, di nome.