Quel “superuomo” di D’Annunzio


Nello scenario della grande crisi europea si colloca, senza ombra di dubbio, il “superuomo” dannunziano, con la sua solida architettura ideologica. Una scelta precisa, apertamente dichiarata, una missione da compiere, condannata, in sede letteraria, ad essere la più evidente testimonianza continentale della reazione borghese.
In quella luce ed in quegli anni, dal 1860 al 1910, si configurarono i miti eticamente eroici del Vate pescarese, di impronta nietzschiana e wagneriana, della potenza e della forza guerriera, della concezione antidemocratica e strettamente individualista della vita, della razza e del destino glorioso, della fede nel culto della bellezza e nella potenza creatrice del genio. È logica conseguenza attribuire a quella “morale” una straordinaria forza trascinatrice, poiché si inseriva con precisa coscienza, in un tessuto storico quanto mai idoneo a sfruttare i motivi concreti della conclusione superominista.
Il successo non poté mancare, e non solo su scala nazionale. La paura si trasformava in ansia ed in bisogno di affermazione e si rifiutavano, come espressione di cedimento e di resa, tutte le più sincere esperienze di autoanalisi, proclamando, i diritti alla sopravvivenza ed al dominio di un mondo, creato a propria immagine e somiglianza. A quel disordine ideologico, si prospettava, quindi, un’unica soluzione, cioè il ristabilimento ed il consolidamento del privilegio borghese.
Il messaggio dannunziano, che descriveva enfaticamente, nelle sue componenti esterne, quel “presunto” caos politico e mentale, rifiutandone categoricamente l’interpretazione, divenne il verbo della nuova classe benestante antidemocratica, antisocialista, ciecamente nazionalista. E quelli che, nel panorama europeo, si presentavano come i simboli generici della “revanche” borghese, nella provincia italiana si trasformarono nella concreta esemplificazione dei temi antigiolittiani e del nazionalismo, esploso violentemente negli anni che precedettero la grande guerra. Il critico letterario Carlo Salinari, scrisse: “Quei miti dannunziani non hanno un’origine soltanto individuale, psicologica o addirittura sessuale, come sembrano credere alcuni. Sono il frutto dell’elaborazione e dell’esperienza storica di una generazione”. L’ideale restituzione della missione latina, predicata dallo storico Alfredo Oriani e sostenuta, per tutta un’esistenza, da Enrico Corradini (scrittore e politico italiano, esponente di punta del nazionalismo italiano), trovò la sua corrispondenza “creativa” nella retorica, alla quale il Vate si affidò, più o meno consapevolmente, con il compito di risvegliare, nel momento del pericolo, la sopita coscienza della classe benestante.
La critica notò, da subito, che gli elementi della filosofia nietzschiana, passarono nelle opere di Gabriele D’Annunzio, attraverso il filtro deformante dell’esaltazione wagneriana. Senza dubbio, dopo il “Trionfo della Morte” (ultimo romanzo della cosiddetta trilogia de “I Romanzi della Rosa”, di cui fanno parte “Il Piacere” e “L’Innocente”) ed i precedenti articoli dedicati a Friedrich Wilhelm Nietzsche, nelle pagine del libro “La Tribuna”, si intuì la visione limitativa, che il poeta riscontrò nelle problematiche filosofiche del pensatore tedesco. Più Wagner, dunque, che Nietzsche, nella concezione letterariamente “sinfonica”, che presiedette alla nascita dei miti dannunziani, alla configurazione dei suoi eroi, quali Giorgio Aurispa, Claudio Cantelmo e Stelio Effrena, e dei suoi tragici personaggi teatrali. Certo, nel teatro il superuomo trovò la collocazione più esatta e la cornice ideale per l’esplosione retorica, che sempre lo condizionò. Anche se, fu nelle trame dei romanzi, che ne venne tracciato il profilo ideale.
Già nel citato “Trionfo della Morte”, alle invenzioni programmatiche, che mettono sull’avviso circa il consolidarsi della “teoria”, oltre la progressiva esaltazione sessuale e la sadica dimensione delle righe conclusive, emergono con forza le prime connotazioni della genialità e dell’unicità del superuomo, l’insuperabile contrasto con “la vita comune”, quel contrasto che isolava il protagonista, Giorgio Aurispa, sul piedistallo dell’orgoglio e della gloria: “Vagava per le vie senza una meta, spinto da un bisogno istintivo di raggiungere uno spazio più largo, eppure attratto dai luoghi popolosi dove il suo orgoglio e la sua gioia gli parevano grandeggiare al contrasto della vita comune”.
Così l’antico impeto carnale si trasformò notevolmente. Abbandonò i limiti naturalistici ed impressionistici delle opere precedenti per acquistare la possibilità di divenire, anch’esso, strumento essenziale del mito, violenza eroica, affermazione tangibile della vittoria e del trionfo dei sensi, il più spontaneo e forse il più istintivo attributo dell’uomo speciale, già in marcia per la conquista del suo spazio vitale. Ed è proprio in quel volume, che la componente wagneriana sembrava decisamente prevalere, realizzando quella dialettica “musicale”, richiesta ormai urgentemente dalla “prosa moderna” a cui tendeva il dimesso narratore del “Giovanni Episcopo” e de “L’innocente”. Alla lunga e faticosa elaborazione del “Trionfo della morte” ed alle velleità sessuali del suo protagonista, seguì ben presto, con “Le vergini delle rocce”, la piena affermazione ideologica del superuomo in alcune pagine di considerazioni mitico-storiche, che restano tra i documenti più espliciti del “conservatorismo” borghese, dei principi antidemocratici ed antiegualitari, e che caratterizzarono, in quegli anni, tutta la produzione letteraria del genio pescarese. Nacque il concetto della superiorità morale di pochi eletti, ai quali era affidato, dal destino, il compito di guidare il mondo, prodotto dalla loro sensibilità e dal loro pensiero. “Il mondo è la rappresentazione della sensibilità e del pensiero di pochi uomini superiori, che lo hanno creato e quindi ampliato e ordinato nel corso del tempo e andranno sempre più ampliandolo e ornandolo nel futuro…[lett.]”, scriveva il Vate. Una superiorità che doveva realizzarsi nella conquista di uno stile, quale segno della vittoria meritata e ottenuta, “……e volevo che ciascun giorno portasse l’impronta del mio stile, si distinguesse per un segno d’arte vigorosa, per qualche fiero emblema di vittoria…..”. Così la fisionomia del superuomo, si delineava nei suoi tratti essenziali.
Ma lo sguardo esaltato di Claudio Cantelmo, il personaggio centrale de “Le vergini delle rocce”, non poteva arrestarsi alla configurazione esistenziale del suo problema. Doveva scendere al concreto dei “fatti”, scegliere il suo campo d’azione, chiudendo entro i confini nazionali l’origine di un evento, che stava per cambiare il mondo. I dati della polemica politica prorompono nelle pagine del libro, consegnandoci un atroce documento, la voce ufficiale, cioè, di una “nuova oligarchia”, di un nuovo “reame della forza”. “Il mondo non può essere costituito se non sulla forza, tanto nei secoli di civiltà, quanto nelle epoche delle barbarie. Se fossero distrutte, da un altro diluvio deucalionico (dal personaggio mitologico di Deucalione, figlio di Prometeo, che costruì un’arca, per difendere l’umanità dall’ira di Zeus), tutte le razze terrestri e sorgessero nuove generazioni dalle pietre, come nell’antica favola, gli uomini si batterebbero tra loro, finché uno, il più valido, non riuscisse ad imperar sugli altri……[lett.].”.
Alle strutture già solide dell’ideale superominista mancava soltanto la finale copertura di un credo estetico, una fede artistica che chiudesse felicemente il cielo genetico dell’ideologia e la consegnasse al tempo, come un autentico messaggio di poesia. Anche in questa estrema operazione, Gabriele D’Annunzio sapeva di non essere solo, ma di appoggiarsi ad una ben radicata tradizione borghese. Non a caso, la prima puntata de “Le vergini delle rocce” fu pubblicata sul “Convito”, la rivista letteraria settimanale fiorentina di Adolfo de Bosis che, insieme all’altra pubblicazione concittadina, “Marzocco”, si era fatta interprete della “intelligenza” nazionalista. Così, nel 1898, con la stesura del “Fuoco”, il superuomo ottenne il battesimo estetico e venne definita la condizione misteriosa da cui doveva nascere l’operazione bellezza, uno specchio magico che rifletteva l’immagine di una “vita superiore”. “Egli era giunto (Claudio Cantelmo) a compiere in se stesso l’intimo connubio dell’arte con la vita e a ritrovare così nel fondo della sua sostanza una sorgente perenne di armonie…..[lett.]”.
Si trattava, evidentemente, di una “teoria dell’arte”, non lontana da quella professata dal gruppo estetizzante del “Convito”. Naturalmente la critica vi rintracciò subito l’impronta di Angelo Conti (filosofo esteta, amico di D’Annunzio, che lo citò nel romanzo “Giovanni Episcopo”), per i segni del raggiunto binomio “arte-vita”, che si condensava in una spinta “energetica” e si realizzava nella tensione musicale della parola. In altri termini, era in fieri la costruzione di una universale visione artistica, capace di esaltare una vita “complessa e strapotente”, alla quale doveva tendere il il superbo prototipo. Infatti, fu proprio il dottor mistico (da Doctor Mystucus, pseudonimo di Conti), l’esteta incomparabile del “Fuoco”, che consegnò al protagonista, Stelio Effrena (dal latino “ex frenis”, “senza freni”), i fondamenti della nuova estetica. Dall’idea al messaggio, quindi. Trasferire, in sede poetica, la tensione eroica della morale superomistica. Probabilmente, fu proprio in quell’ansia di attingere alla persuasione segreta della musica e del mistero, che vennero maturando, in D’Annunzio, le ragioni stilistiche del saggio “Alcione” e della sua prosa, da “Leda senza cigno” al “Libro segreto”.
Ma intanto, per altre vie si stava muovendo il frutto “della stirpe eletta”. Le pagine del “Fuoco” possono già consegnarci il profilo del futuro “Comandante”, restauratore dei diritti della razza latina. “………io annunzio l’avvento di un’arte novella o rinnovellata, che per la semplicità forte e sincera delle sue linee, per la sua grazia vigorosa, per l’ardore dei suoi spiriti, continui e coroni l’immenso edifizio ideale della nostra stirpe eletta. Io mi glorio di essere un latino e riconosco un barbaro in ogni uomo di sangue diverso”. Con queste parole, di chiara intonazione nazionalistica, si completava il cammino del superuomo e la condizione estrema dell’arte dannunziana. Alla prosa, egli diede, da allora in poi, un valore di contrappunto, considerandola ai margini della sua tensione creativa. Il romanzo, nel suo assunto ideologico, cedette il passo al dramma, come il genere più idoneo a cantare, dal palcoscenico della storia, “il fiore supremo del genio di una stirpe”. Alla poesia, assegnò il l’estremo compito dell’evocazione patriottica.
Al termine di quel lungo percorso, rimasero vive soltanto le pagine di memoria, che il romagnolo Renato Serra, forse il più grande critico letterario di inizio XX Secolo, scomparso combattendo nel 1915, aveva pronosticato fin dai tempi dell’esilio francese del “Vate d’Italia”, l’uomo che rappresentò l’incarnazione del “gagliardo spirito nazionale”.