Draghi e Mattarella: nuovi partiti per il bene della cosa pubblica italiana


Mario Draghi non è un leader politico, ma uno dei vertici istituzionali dello Stato. E non va inteso come taumaturgo, ma come soggetto istituzionale che potrebbe promuovere burocraticamente una legge per fare ripartire i partiti attuali, le cui leadership non hanno interesse a cambiare, mentre un soggetto istituzionale interessato realmente al miglior governo dello Stato (uno dei due, tra Presidente della Repubblica e del Consiglio dei Ministri, o entrambi) sarebbero appropriati e anche motivati. Salvo che per opportunismo non decidano di fare pesce in barile…
Il progetto manageriale di funzionamento dei partiti si schiera contro il progetto di partito leaderista, che non è così naturalmente compatibile con la democrazia, e a quello illusoriamente popolare (complemento organizzativo del populismo). Tutti i modelli richiedono comunque organizzazione e direzione, con decisioni che non possono essere sempre plebiscitarie o estesamente partecipate dalla base, come fanno credere le democrazie arretrate, basate su meccanismi di massa, tipiche di certi Paesi sudamericani. Questi ultimi hanno ereditato il ritardo di molte terre latine nella democrazia, portandolo a una soglia contrastante con essa.
La democrazia italiana deve maturare e prendere atto che occorre da parte degli eletti competenza organizzativa e direttiva per far funzionare la cosa pubblica, ed evitare la retorica della partecipazione o le illusioni della democrazia diretta: spesso queste argomentazioni sono parziali e teoriche, e nascondono opportunismi.
Ad esempio, il M5S, massimo fautore recente della democrazia diretta, ha sempre finto di non essere organizzato con la rappresentanza. E lo ha fatto nel modo peggiore, con candidati veicolati dalle catacombe, il leader Conte piovuto dal cielo e favole ai bravi attivisti. Una figura discutibile (Grillo) e un apparente sognatore (Casaleggio, R.I.P.) hanno messo nel sacco un terzo degli italiani, facendo fare con i loro programmi inattuabili e la concretizzazione di progetti nascosti, un altro passo indietro alla democrazia italiana.
Il “partito manageriale” è un nome di genere, che lo distingue da partito del Presidente o partito del capo (leaderistico o carismatico) o partito oligarchico, solo per dirne alcuni e il suo nome proprio può essere qualsivoglia. Parlando di partiti, non si parla dell’organizzazione dello Stato, ed è opportuno rimanere in tema, essendo il funzionamento dei partiti già abbastanza complesso e vitale per la democrazia senza considerare le storture del sistema.
Certo è che un partito manageriale mai si potrà chiamare partito nazista o partito comunista, per gli ovvi motivi ideologico-istituzionali dei due casi citati, che contraddicono il processo di selezione per merito e professionalità tipico dei principi della migliore organizzazione e direzione (management), sostituendoli con un principio fondamentale di adesione ideologica.
Il partito è centrale nella democrazia e per rifondarlo nelle istituzioni e nella testa della gente, occorre procedere in modo organico e dialettico. Intanto, occorre buona filosofia del diritto; poi occorre un buon benchmarking con gli altri Paesi democratici, per evitare errori banali e anche per cercare di armonizzare i comportamenti politici in sede comunitaria.
La nomina di Draghi, prima che un successo personale suo conquistato sul campo, è segno della malattia grave della nostra democrazia. Mattarella e Napolitano sono stati e sono i principali portatori di medicine sull’effetto anziché sulla causa, e qui si nota la caratteristica specifica del nostro assetto istituzionale, il cui vertice (il Presidente della Repubblica) non è di stirpe come nelle monarchie e nemmeno di nomina diretta come nella democrazia americana ma espressione protratta nel tempo, cioè più estesa del ciclo elettorale del Parlamento, di un quadro parlamentare. Così, il suo ruolo, e ben lo sappiamo, quando agisce per necessità in surroga di Parlamenti fatti di partiti (e conseguentemente eletti) incapaci di garantire stabilità e qualità di governo, anziché cercare di drizzare il sistema, tende a surrogarlo, appoggiandosi a interessi di partiti locali o extraistituzionali (Europa, NATO).
Rimane che Presidente della Repubblica e Presidente del Consiglio sono i due ruoli istituzionali cui appellarsi per la riforma dei partiti, se i partiti stessi non si muovono.
Le condizioni suddette spigano, più che il successo di Draghi, lo stato di minorità in cui “si vuole” (poteri forti? Europa? NATO?) tenere la democrazia italiana.