La letteratura dei “rastrellatori di letame” (1a parte)


Fu Theodore Roosevelt, nel lontano 1906, il primo ad affibbiare, a coloro che erano impegnati nell’opera di porre in evidenza la corruzione della società americana, il titolo ingiurioso di “rastrellatori di letame”. Molto probabilmente prese spunto dall’uomo che, nell’opera “Pilgrim’s Progress”, composta da John Bunyan e pubblicata nel 1678, non poteva volgere lo sguardo altro che a terra, con un rastrello fra le mani, cui venne offerta, in cambio del suo attrezzo, una corona celeste. Lui non volle guardare in alto, né considerare la preziosa offerta, continuando a raccogliere, imperterrito, la sua spazzatura. Come molti altri epiteti, del tipo “puritano”, “quacchero”, “yankée”, “democratico”, quel termine, però, con il tempo, risuonò quasi come un appellativo di nobiltà.
Poiché in quegli anni, ed ancora prima, quella gente si era data un compito che nessun altro era disposto ad assumersi, cioè sfruttare la forza di uno scritto per garantire, alle proprie rivendicazioni, un’inequivocabile autorità letteraria, il Presidente americano, la sua definizione critica l’avrebbe potuta modulare, ricordando ai propri concittadini i versi di George Herbert: “Chi spazza una camera secondo precise norme, nobilita quella ed il suo stesso atto”.
I “rastrellatori” rendevano noti al pubblico i malanni caratteristici che affliggevano la vita d’oltre oceano, sollevando il pubblico sdegno, fino al punto da rendere popolarissime le loro rivendicazioni e gettando i semi di quel progressivismo di cui i politici avrebbero raccolto i frutti. Quei personaggi, contro i quali l’allora Capo della Casa Bianca scagliò il suo anatema, contavano, tra le proprie fila numerosi critici brillanti. Non solo giornalisti, anche romanzieri, storici, economisti, sociologhi e filosofi. L’obbiettivo che si erano riproposti, consciamente o inconsciamente, consisteva nel preservare la democrazia, sia politicamente che economicamente, al fine di rendere realizzabile la fortemente agognata “promessa americana”. E quel tanto che il movimento progressista ottenne, lo si dovette, in grandissima parte, proprio a loro.
I “rastrellatori di letame”, termine che racchiudeva tutta una sequela di espositori di vergogne e di proteste, non avevano, in verità, fatto la loro prima apparizione sotto la presidenza Roosevelt. Si può risalire, per trovarne gli antesignani, agli anni 1880-1890, al periodo della rivolta agraria, del radicalismo operaio e del sollevamento contro i trust. Solo al volgere del secolo, quando riviste molto diffuse, come “McClure’s”, “Everybody’s”, “Cosmopolitan”, “Collier’s!” ed “American Magazine”, aprirono le proprie pagine agli scritti rivelatori, essi raggiunsero una consistente e significativa notorietà. La loro attività era, in questa prima fase, più teorica e meno a sensazione, ed aveva, per oggetto, più problematiche generali, che non punti specifici da rimediare. Differenza, che si spiega col fatto che essa venne da ultimo trasformandosi in puro argomento giornalistico ad effetto. La maggior parte di quella letteratura di protesta ebbe virtù molto effimere. Alcuni degli scritti che contribuirono al movimento riformatore, possedevano qualità durature, ottenendo, soprattutto, un significato storico per l’interesse suscitato. Nella prima categoria possono essere inclusi due autori, il cui nome andò acquistando risonanza nel pensiero economico statunitense, Henry George e Thorstein Veblen. “Progress and Poverty” di George, pubblicato nel 1879, fu una delle opere maggiori del XIX Secolo ed esercitò piuttosto un’influenza di suggestione, che pura didattica. Questo scrittore, uno dei pochi economisti originali, prodotti da quella terra, si era messo in mente di risolvere il paradosso del progresso e della povertà, per via di “una formula così larga da non ammettere alcuna eccezione”. Quella che trovò si basava sulla “imposta unica”; un’imposta che avrebbe incamerato qualunque aumento di valore della terra, non corrispondente ad un lavoro, ed avrebbe garantito a tutti un accesso alla terra ed alle sue risorse a condizioni uguali, distruggendo di fatto il monopolio, eliminando le speculazioni e restaurando l’uguaglianza economica tra tutte le classi. La diagnosi che egli compì delle ragioni della povertà e dell’ineguaglianza era più profonda, che non la cura per la “imposta unica”. Un’intera generazione di progressisti poteva riconoscersi debitrice verso vari duplicati del “cavalier Baiardo dei poveri”, come Hamlin Garland, Tom Johnson, Clarence Darrow e Brand Whitlock, negli Stati Uniti, Sidney Webb e Bernard Shaw in Inghilterra, Tolstoi in Russia e Sun Yat sen in Cina. L’influenza esercitata da George non si limitava agli intellettuali. Del volume “Progress and Poverty”, si vendettero più di due milioni di copie. Nelle pianure polverose del Kansas, nei tuguri di Liverpool e di Mosca, sulle rive del Gange e dello Yangtsé, i poveretti sillabavano a fatica il suo messaggio, che li aiutava a far propria una nuova visione della società umana.
Una fama assai minore incontrarono, invece, gli scritti di Thorstein Veblen, contraddistinti da un’oscurità di stile, che voleva scoraggiare chiunque non fosse dotato di una perseveranza fuori dal comune. Si può dire che la “Theory of the Leisure Class” (1899) e la “Theory of Business Enterprise” (1904) abbiano costituito la più severa accusa contro l’affarismo moderno, che mai sia stata pronunciata valendosi di accurati mezzi di studio. Veblen poneva in campi ben distinti gli “affari” e la “industria”. I primi, secondo lui, non tendevano che al profitto ed erano, pertanto, antisociali. La seconda aveva per oggetto l’organizzazione dei processi tecnici della produzione ed era, di conseguenza, socialmente benefica. È impossibile seguire tutte le ramificazioni, anche contorte, delle sue tesi, ma è lecito far notare che quelle pagine fornirono a molti rinnovatori gli argomenti più concludenti contro la “ricchezza predatrice”, la proprietà assenteistica ed il sistema dei profitti.
C’erano poi, anche in quel tempo, coloro che, fuggendo dalla “moderna società dei predoni”, volevano rifugiarsi in una qualche realtà illusoria, lungamente vagheggiata. La pubblicazione di quasi una cinquantina di “fantasie utopistiche”, nel solo decennio 1890/1900, è un indice dello scontento che animava allora gli americani ed è, altresì, un’evidente immagine di come gli “utopisti” di quegli anni, a differenza dei loro predecessori, si rivolgessero unicamente ad opere letterarie. La più famosa fu quella di Edward Bellamy, “Looking Backward, 2000-1887” (Guardando Indietro 2000-1887). Egli immaginava una società industriale cooperativa, dove fosse eliminato non solo il profitto, ma anche la moneta, somigliante, in un certo modo, all’ordinamento industriale, istituito nella Russia sovietica verso il 1920. Venne tradotto anche in italiano, a partire dal 1890, in più edizioni e con più titoli: “Nell’anno 2000. Racconto americano”, “L’avvenire!?”, “Uno sguardo dal 2000”, “Le versioni distanti”. Fu il terzo romanzo più venduto del suo tempo, dopo “La capanna dello Zio Tom” e “Ben-Hur”. Possiamo dire il quarto, includendo anche la “Bibbia”.