E li chiamarono….”Indiani” (1a parte)


Un bel giorno d’estate, più o meno, di venticinquemila anni fa, alcuni gruppi di famiglie mongole si trovarono sul maestoso Capo Oriente, il promontorio più ad est della Siberia, a circa cinquanta chilometri del Circolo Polare Artico. Avevano abbandonato la loro antica dimora, in quello che si chiama oggi il Deserto di Gobi, poiché quella zona si andava inaridendo, ed avevano compiuto un lungo e difficile viaggio, di almeno cinquemila chilometri, vivendo all’aperto e combattendo, per molti anni, con gli indigeni che avevano incontrato lungo il cammino. Probabilmente, solo l’arte magica di uno stregone e le promesse premonitrici di un nuovo mondo, li avevano sostenuti. Il cibo scarseggiava e gli ultimi nemici, che si erano opposti al loro passaggio, li inseguivano da presso. Gli abiti, di pelle, erano a brandelli e coprivano sempre meno dal freddo incalzante. Poi, quando tutto sembrava perduto, sempre con qualcuno alle calcagna, guardando al di là dello Stretto di Bering, videro distintamente, a meno di quaranta chilometri, le sagome di due isole, una più vicina ed una più lontana, che si innalzavano, a forma di cupola, sopra il livello del mare. Non avevano alcuna pratica di navigazione, ma dovevano trovare, al più presto, una via d’uscita. E così, mettendo insieme tutti i tronchi ed i pezzi di legno, che raccolsero nei paraggi, riuscirono a raggiungere la riva della prima, quella che oggi si chiama Grande Diomede, liberandosi degli inseguitori.
La Grande e la Piccola Diomede, tra le quali attualmente passa il confine tra Russia e Stati Uniti, rocciose ed aride, non offrivano molto cibo. Quei tormentati pionieri, quindi, ripresero il viaggio, per mare, verso un nuovo lembo di terra, che si stagliava sull’orizzonte, ad altri quaranta chilometri, o giù di lì. Giunsero, alla fine, in Alaska, sulla penisola di Seward, il punto più occidentale del continente americano. Era quella la terra promessa, che offrì loro i primi veri pasti. Nei fiumi e nel mare vivevano lontre, salmoni e foche. Il retroterra abbondava di grandi quantità di “bestie pelose”, che emettevano strani e ridicoli versi, la cui carne riempiva lo stomaco e la cui pelliccia riscaldava durante l’inverno. E per di più, non vi era alcun altro essere umano, con cui dover condividere tanta abbondanza. I nostri “pellegrini” cominciarono ad amare quei nuovi territori, al punto da dimenticare completamente quelli che avevano lasciato. Furono loro, gli antenati di quella potente razza che Cristoforo Colombo, per errore chiamò indiana.
Anche se raccontata con veste romanzata, proprio questa dovette essere la realtà storica che, ampiamente condivisa dagli studiosi, ci parla dei primi insediamenti umani, giunti sul suolo nordamericano. L’Homo Sapiens non fu un novellino sul nostro pianeta e, in America, è sempre stato considerato come un “parvenu” del periodo post-pleistocenico. Nulla è stato tramandato, per iscritto, dal popolo dei nativi e gli archeologi o i paleontologi non sono stati, quasi mai, in grado di rispondere correttamente a tutte le domande. Sicuramente, appare improbabile che il Nuovo Mondo abbia avuto il proprio “Pithecanthropus Erectus” (come fu chiamato un grosso Primate, di cui furono trovate alcune ossa, nel 1893, a Giava). In quelle terre, non è mai comparsa traccia di scimmie antropomorfe, né di forme umane primitive. Sembra quasi offensivo, per l’America, che essa abbia dovuto importare l’uomo dall’Asia, anche se grossi animali, quali il dinosauro ad esempio, vi giravano, in lungo ed in largo, nell’era preglaciale e cioè circa centocinquantamila e più anni fa. Di sicuro, i tanti milioni di Indiani che abitavano quel continente, nel 1492, discendevano da quei “padri pellegrini” mongoli. Altri gruppi di nomadi, provenienti dal continente asiatico centrale, seguirono la stessa strada, in cerca di sicurezza e cibo. Le migrazioni furono intermittenti e durarono varie migliaia di anni.
Ora, alcune considerazioni. Anche se, come risaputo, l’Africa era un tempo unita al sud America, la separazione delle due masse tettoniche avvenne molto prima che il genere umano facesse la propria comparsa sulla terra. I nativi della Polinesia, malgrado la loro particolare abilità nella navigazione con piroghe, non raggiunsero mai il suolo americano, perché nel Pacifico del Sud, ricco di numerosissime isole, i venti prevalenti erano (e sono) molto forti e solo orientali; e nel Pacifico del Nord, tra le Hawaii e la California, il salto era di circa tremilacinquecento chilometri. Una distanza ancora maggiore correva tra l’Isola di Pasqua, il punto più orientale che i Polinesiani abbiano mai raggiunto, e la costa cilena. Può anche darsi che giunche cinesi o barche da pesca giapponesi, alla deriva, siano state spinte dalle correnti fino alla costa dell’Isola Vancouver o dell’Oregon, ma quegli equipaggi, inizialmente sopravvissuti, furono sicuramente morti di sete e di fame, oppure uccisi e, perché no, forse anche mangiati, una volta approdati. Gli Eschimesi, infine, che appartengono alla stessa razza degli indiani d’America, denominata “rossa”, ma con un fisico completamente diverso, molto probabilmente giunsero in Alaska ed in Canada “solamente” dieci o quindici mila anni prima dei bianchi. Quindi, gli antenati dei pellerossa non poterono che giungere, tutti, dal continente asiatico e, per almeno venticinquemila anni, non vi fu incremento di altri ceppi.
Tornando ai nostri pellegrini mongoli, i loro spostamenti, poterono essere monitorati, grosso modo, solo attraverso i resti delle loro successive civiltà, venuti alla luce con casuali scavi. Ma per stabilire esattamente le epoche dei loro movimenti ed i loro itinerari occorrerebbero ancora un’infinità di scoperte archeologiche. Secondo gli studiosi, di sicuro, per molti millenni le peregrinazioni si limitarono all’Alaska, sia settentrionale che centrale. Poi, quando la grande coltre di ghiaccio, che una volta ricopriva tutto il Canada e buona parte degli Stati Uniti, si ritirò, essi passarono attraverso il corridoio interglaciale delle valli dello Yukon e del Mackenzie, situato ad est delle Montagne Rocciose, e di lì si sparsero, a mo’ di ventaglio, nelle praterie dei bufali, ed oltre. Prima di questa dispersione, si erano cimentati nel fabbricare cesti impermeabili, idonei per preparare il cibo, usando pietre arroventate. In seguito, impararono a cuocere la terracotta ed a tessere manufatti. Coloro che si fermarono sulla costa, appresero l’arte di modellare le canoe, scavate in tronchi d’albero, che potevano contenere fino a cento persone. Su simili imbarcazioni, gli Arawak, i primi che Colombo incontrò, avevano occupato l’isola di Guanahani, dove il genovese sbarcò, circa un secolo prima del suo arrivo. Per via terra, valicando la cordigliera ricoperta dalla giungla, probabilmente passarono dall’America centrale a quella meridionale e, dopo averla raggiunta, alcuni di essi si specializzarono nella lavorazione dei metalli, per poi tornare indietro. Venticinquemila anni non furono poi tanti, dopo tutto, perché questi popoli arrivassero a quella distribuzione territoriale, che gli europei trovarono soltanto poco più di cinquecento anni fa, o perché si creasse una distinzione tra i primitivi selvaggi della California e le società complesse e ben organizzate del Messico, della Colombia e del Perù. Tali differenziazioni furono anche maggiori di quelle delle popolazioni europee.
Mancando quindi altri mezzi di classificazione, gli etnologi convennero di catalogare, secondo un criterio linguistico, le varie migliaia di tribù, dividendole in gruppi o famiglie che parlassero lingue con caratteristiche comuni. E man mano che ne riconobbero meglio gli idiomi, andarono riducendo le classificazioni. L’etnologo John Wesley Powell (1834-1902), ad esempio, aveva riconosciuto cinquantasei gruppi linguistici, nel Canada e negli USA; quelli stessi furono, successivamente, ridotti al numero di sei. Comunicare con una lingua comune aveva, comunque, un’importanza relativa, perché, tra di loro, quelle genti si comprendevano perfettamente.