Stalin e la distruzione delle opposizioni


“La storia è la somma delle cose che potevano essere evitate”, diceva Konrad Adenauer, uno dei padri fondatori della Comunità Europea. Ma non sempre fu così. Nel terzo decennio del 1900 iniziò il capitolo più drammatico della carriera di Iosif Vissarionovič Džugašvili, detto Stalin, con l’attuazione di una lunga serie di processi, nei quali egli distrusse quasi tutta la vecchia guardia del bolscevismo. Dopo aver spedito in esilio Lev Trockij, continuò la sua lotta con l’unica arma che gli era rimasta, una penna con la quale riempiva un piccolo periodico, “Il Bollettino dell’Opposizione”. Gli antichi rivali erano stati non solo sconfitti, ma spiritualmente distrutti, anche se alcuni continuavano a mantenersi in contatto con i membri del suo “Politburo” (ufficio politico) ed altri ancora, i più penitenti, come Nikolaj Ivanovič Bucharin, Aleksej Ivanovič Rykov, e Georgij Leonidovič Pjatakov, erano membri del governo e suoi consiglieri personali. Un tale atteggiamento, sottomesso e temporeggiatore dei veterani, non poteva soddisfare gli elementi scontenti dei più giovani. La nuova generazione guardava ancora con rispetto ai “Grandi Vecchi” del comunismo, sperando di riabilitarli e di riportarli al potere. Non solo i figli consideravano i padri, superiori per educazione ed esperienza politica, ma ne accettavano anche l’idea fondamentale, il ritorno al leninismo puro. La differenza era solo nella scelta dei mezzi. In gioventù, quei “decani”, si erano opposti all’assassinio dei satrapi zaristi e, come marxisti, avevano fatto affidamento sulla crescita del movimento di massa contro lo zarismo. Ma i figli non avevano queste ambizioni. A scuola e nelle cellule del Komsomol (Unione della Gioventù Comunista Leninista), avevano studiato la storia di quei solitari rivoluzionari russi che, nel XIX Secolo, avevano attaccato l’autocrazia, con bombe e pistole, sull’onda degli attentati.
Parallelamente allo sviluppo dell’opposizione, un nuovo dissenso stava sorgendo in seno al Politburo. Alcuni volevano che Stalin desse alla sua autocrazia una tinta più liberale, mentre altri favorivano la mano forte. Fra i primi figurava Kliment Efremovič Vorošilov, fra i secondi Vjačeslav Michajlovič Molotov e Lazar’ Moiseevič Kaganovič. La loro devozione al capo del Cremlino, era fuori dubbio. Essi erano i leaders della sua guardia pretoriana e difendevano lo “status quo”, differenziandosi l’un l’altro, però, nei metodi. C’era qualcosa di incomprensibile nella maschera di calma assoluta che Stalin riusciva a portare, assistendo a quei dissensi. Forse era convinto di non avere nulla da temere. Gli antagonisti fecero appello alla sua saggezza ed attesero il verdetto. Durante tutto il 1930, egli rispose, appoggiando questa o quella fazione, ondeggiando tra repressioni intense e gesti liberali, arrivando ad ordinare, nella primavera di quell’anno, un’amnistia limitata ai “kulaki” (categoria di contadini presenti negli ultimi anni dell’impero) ribelli e subito dopo, nel mese di giugno, ad autorizzare un decreto, che proclamava la responsabilità collettiva di tutta una famiglia, per il tradimento commesso da uno solo sei suoi membri. E coloro che non denunciavano alle autorità un parente infedele, erano passibili di punizioni, anche capitali. Un mese dopo abolì la OGPU (Direzione Comune Politica di Stato), in buona sostanza, una delle polizie segrete, e la sostituì con il Commissariato degli Affari Interni. In generale, i poteri della polizia politica vennero, alla fine, limitati ed all’Avvocato Generale dello Stato fu dato il diritto di controllarne le attività e di opporre il veto, quando erano in conflitto con la legge.
Ma questa fase semi-liberale si interruppe il 1° dicembre 1934. Un giovane comunista dell’opposizione, Leonid Vasil’evič Nikolaev, fu accusato dell’assassinio, a Leningrado, di Sergej Mironovič Kirov (Kostrikov il vero cognome), importante dirigente del Partito Comunista Sovietico. Per inciso, sulle reali responsabilità della sua morte, dopo la “destalinizzazione”, spuntarono ipotetiche responsabilità proprio a carico dello stesso Stalin, il quale avrebbe organizzato l’attentato per eliminare un possibile avversario e trovare un pretesto per riprendere ed accentuare una politica di repressione. Tornando ai fatti, il premier sovietico si recò a Leningrado per interrogare personalmente il terrorista. Seppe così che l’assassino apparteneva ad un gruppo di giovani comunisti amareggiati dall’oppressione ed affascinati dalle idee del terrorismo rivoluzionario. Seppe anche che, sia lui che i suoi amici, si consideravano seguaci di Grigorij Evseevič Zinov’ev, pseudonimo del rivoluzionario ucraino Hirsch Apfelbaum. Si rese conto che la vittoria sugli oppositori era tutt’altro che completa. Decise, allora, di colpire a fondo e con maggior violenza. Consumato un processo “in camera”, a porte chiuse, per volere di uno speciale decreto che negava agli imputati il diritto di difesa e di appello, Nikolaev ed i suoi compagni furono fucilati. E nella primavera del 1935, dopo sommarie indagini, anche una quarantina di componenti la sua guardia del corpo, furono analogamente processati. Due condannati a morte, gli altri inviati ai lavori forzati in Siberia.
Stalin non voleva deludere completamente le speranze di una riforma liberale. Diede così, al popolo, una dieta, mista di terrore ed illusioni. Il VII Congresso del Soviet approvò una mozione sulla necessità di una nuova costituzione ed elesse una commissione con il compito di preparare il documento. Cercò di indirizzare l’attenzione del proletariato ai sedicenti successi del secondo Piano Quinquennale. Apparve, con sempre maggiore frequenza, a manifestazioni popolari e propagandistiche, accompagnato abitualmente da operai e da contadini oltremodo stacanovisti.
Ed ancora una volta, quel clima, ancorché altalenante, di entusiastica e corale rinascita, si dissolse nel nulla, lasciando il campo ad un qualcosa di inenarrabile. Ciò che accadde, fece rapidamente il giro del mondo e sollevò, ovunque, indignazione ed unanime dissenso. Nell’agosto del 1936, infatti, la Russia ed il mondo rimasero senza fiato di fronte al processo di Zinov’ev e Kamenev, pseudonimo di Lev Borisovič Rozenfel’d. Fu l’inizio di un’interminabile serie di imputazioni, che coinvolsero gli uomini del Politburo, a suo tempo fedeli a Lenin, il Maresciallo Michail Nikolaevič Tuchačevskij ed un gruppo di generali dell’Armata Rossa. Trockij, assente perché in esilio, era l’incriminato principale. Capi d’accusa, erano i tentativi di assassinare Stalin con gli altri membri del Cremlino, di restaurare il capitalismo, di distruggere la potenza economico-militare del paese e di avvelenare, o di uccidere con altri mezzi, masse di operai russi. Furono tutti incolpati di aver lavorato, fin dagli albori della rivoluzione, per i servizi di spionaggio della Gran Bretagna, della Francia, del Giappone e della Germania, e di aver firmato accordi con il nazismo. Se tutte questa accuse fossero state vere, sarebbe stato impossibile giustificare la sopravvivenza dello Stato sovietico. La natura irreale dei processi fu ulteriormente sottolineata dal comportamento degli imputati, o almeno di quelli che furono processati in pubblico. Essi confessarono le loro colpe e quelle confessioni furono l’unica prova su cui si basarono i dibattimenti e le scontate sentenze. Non venne presentato un solo indizio che potesse essere verificato, con i mezzi della normale procedura legale. Quasi tutti gli imputati affrontarono il plotone di esecuzione.
La ragione fondamentale di quelle ripetute ed interminabili eliminazioni, fu che Stalin voleva distruggere gli uomini che rappresentavano una o più potenziali alternative di governo. Fin dall’inizio, infatti, aveva ravvisato e temuto, nella contro-rivoluzione, il tentativo, o anche solo l’intenzione, di creare un’alternativa al suo governo. Quella serie di processi fu solo l’inizio di un’epurazioni di massa, che ebbe luogo, dopo un primo scalpore generale, senza i fulmini ed i tuoni della pubblicità, senza le confessioni delle vittime, e spesso senza processo. Commentando gli avvenimenti di Mosca, Trockij scrisse: “Stalin è come un uomo che vuole dissetarsi con l’acqua salata”. Migliaia e migliaia di persone vennero rinchiuse in prigione o inviate nei campi di concentramento siberiani. Uomini di partito, diplomatici, ufficiali, dirigenti di azienda, rappresentanti del comunismo straniero, tutti coloro che nel passato avevano avuto legami con l’una o l’altra fazione del partito bolscevico, vennero automaticamente colti nella rete ed eliminati. Non una volta Stalin apparve personalmente in tribunale. All’uomo che gli organi di stampa del partito, descrivevano come la vittima principale di un complotto tanto vasto e sinistro, non venne mai chiesto di deporre. Eppure, durante quell’interminabile e macabro spettacolo, si avvertiva la sua presenza nella “buca del suggeritore”. Ma non fu solo il suggeritore. Fu l’invisibile autore, regista e produttore. Il vero epilogo ebbe luogo non in Russia, ma in Messico, dove Trockij viveva. I suoi figli erano tutti morti in circostanze misteriose ed il 20 luglio 1940, mentre era intento a scrivere una biografia del suo carnefice, un oscuro individuo, che si professava suo seguace, gli spaccò il cranio con una scure.
Dopo aver sradicato, senza pietà, il trotskismo in Russia, Stalin aveva tragicamente trionfato anche sull’uomo stesso, il cui nome, assieme a quello di Lenin, aveva simboleggiato le grandi speranze e le grandi illusioni della rivoluzione di ottobre.
La morte di Lev Trockij sembrò sigillare la fine di quelle speranze e di quelle illusioni.