
PsicologicaMente – Infelicità. Allenarsi alla felicità
La maggior parte delle persone è felice nella misura in cui hanno deciso di esserlo” (Abram Lincoln )
Cari lettori, questa settimana mi ha accompagnato un quesito che oserei definire quasi amletico: perché è così difficile essere felici? Esiste al mondo qualcuno che può, in maniera convinta e consapevole, affermare di essere veramente e pienamente felice?
Da qui l’argomento di questa settimana: l’infelicità, ci capita o siamo noi, con le nostre scelte e comportamenti, a provocarla?
Quante volte sentiamo o noi stessi usiamo dire: “ah come sono stato sfortunato nella vita!”, “perché le cose belle capitano sempre agli altri!?”, “perché la ruota gira sempre dalla parte opposta alla mia?” e potrei elencarne innumerevoli di moti di insoddisfazione che agitano le giornate nostre e di chi ci è vicino ma, mi chiedo, sarà davvero tutta una questione di fato avverso o siamo noi stessi i fautori di questo eterno status di infelicità?
Partirei con il definire la felicità e direi che si potrebbe correttamente descrivere come un generale senso di soddisfazione e di serenità nei confronti della propria vita.
Detto ciò passerei a suddividere in tre tipologie le persone in merito a tale argomento: Coloro che sono felici; Coloro che credono di essere felici; Coloro che dichiarano apertamente di essere infelici; infine Coloro che fingono felicità.
Personalmente, e qui lo dico e qui lo nego, mi ritengo tra i pochi a sentirsi felice e soddisfatto, almeno oggi riesco a ritenermi tale.
Tuttavia ho avuto fasi nella vita in cui mi sono sentito anche io un uomo non contento, insoddisfatto, infelice e pertanto vorrei prima di tutto esprimere a coloro che fingono uno stato di benessere e felicità tutta la mia solidarietà e comprensione. Capisco appieno l’esigenza di “mascherarsi”, di fingere, di indossare il sorriso e i buoni pensieri come un ulteriore strato di abiti perché in una società come la nostra se non ci si mostra felice non si può lavorare, non si può vendere, non si può “funzionare” e spesso, purtroppo, non serve nemmeno essere felice per davvero, basta , appunto, fingere…
Mi guardo attorno. Vedo persone che sono felici “per lavoro”, che devono mostrare il loro più bel sorriso ogni mattina con persone che non lo meritano o che non conoscono nemmeno ma soprattutto lo devono fare per forza.
Oggi “vivere normalmente nella società” ha questo requisito: bisogna mostrarsi a tutti i costi felici affinché nessuno ci possa giudicare, nessuno ci possa licenziare, nessuno debba sopraffarci.
Se ci si guarda intorno sembra che tutti stanno bene. Ma questo accade in superficie: quanti sono veramente appagati dalla loro vita, quanti hanno semplicemente rinunciato ad esprimersi?
Certamente non posso io dire di avere in tasca la ricetta della felicità e forse nessuno arriverà mai a possederla ma posso offrire una mia osservazione critica sul tema basata sulla mia esperienza di uomo e di professionista.
Ad esempio rilevo che una delle cause più comuni della infelicità nei pazienti che io seguo scaturisce dal fatto che essi cercano faticosamente di vivere su un piano di un appagamento differito, non vivono cioè, né godono, oggi della vita, ma restano perennemente in attesa di un accadimento futuro. Saranno certamente felici quando si sposeranno, quando avranno un lavoro migliore, quando avranno finito di pagare il mutuo, quando i figli lavoreranno, quando avranno portato a compimento una data cosa o quando avranno ottenuto una vittoria, ma quasi sempre e senza un apparente motivo questa aspettativa viene delusa.
Io ritengo che la felicità si possa considerare alla stregua di un abito, un atteggiamento mentale che, se non si acquisisce né si pratica nel presente, non si avrà mai a pieno.
Non è possibile sottoporla a condizione considerato che, raggiunto un obiettivo, l’essere umano tende a porsene immediatamente un altro e questo perché la vita è un concatenarsi di eventi e di traguardi.
Se si vuol raggiungere uno stato di felicità duraturo, bisogna interpretare la felicità come un’abitudine mentale, e non la conseguenza di qualcosa.
Non a caso lo psicologo Dott. Matthew N. Chappell disse che “La felicità è un fatto puramente interiore, non è un prodotto degli oggetti, ma delle idee, dei pensieri, degli atteggiamenti che nascono e si sviluppano dalle attività proprie dell’individuo, indipendentemente dall’ambiente”.
Inoltre, dobbiamo considerare che nessuno può essere sempre felice al cento per cento, se ci pensiamo bene, potremmo addirittura diventare scontenti se lo fossimo ma possiamo, interpretando nel giusto modo quegli avvenimenti che ci generano infelicità, diventare sereni ed avere pensieri positivi per buona parte del nostro tempo.
Nella maggior parte dei casi si può dire che è per abitudine che abbiamo reazioni di scontentezza, insoddisfazione, risentimento e irritazione in seguito a piccole contrarietà, a delusioni o ad altri avvenimenti analoghi.
Abbiamo reagito in questo modo così a lungo che, ormai, è diventata una abitudine.
Il miglior rimedio allora sta nell’acquistare l’abitudine contraria, cioè alla felicità.
Questo atteggiamento ci renderà attori anziché spettatori delle circostanze e dei fatti contingenti.
Anche di fronte ad avvenimenti spiacevoli o nell’ambiente più ostile, si può adottare un atteggiamento pro attivo, evitando di peggiorare le cose con sentimenti di autocompassione, risentimento e pessimismo.
Per natura, lo abbiamo detto, l’uomo è un essere che lotta per il raggiungimento di scopi e funziona naturalmente e normalmente quando è orientato ad un fine positivo e lotta per esso.
Essere felici o comunque perseguire questo status è certamente sintomo di un funzionamento normale e naturale, é proprio quando l’uomo agisce da lottatore che più facilmente si avvicina alla felicità, indipendentemente da quanto accade intorno a lui.
Ogni tanto mi capita che qualche paziente mi chiede se esiste e quindi di suggerirgli un qualche esercizio pratico contro l’infelicità.
Difronte a queste richieste prima di tutto spiego che è necessario allenarsi a reagire pro attivamente e positivamente dinanzi a minacce e problemi e porsi sempre uno scopo, pertanto, sarebbe utile far pratica di un atteggiamento combattivo nella quotidianità ma anche nella “eventualità”. Mi spiego meglio: bisogna, ancor prima di agire, immaginare di intervenire pro attivamente per risolvere un problema, per raggiungere un obiettivo; immaginare di reagire ed affrontare le avversità.
Questo è utile poiché l’immagine dell’io e le abitudini solitamente camminano insieme.
L’abitudine è il modo con cui la nostra personalità si esprime e non è casuale ma lo si adotta perché esso si adegua alle nostre caratteristiche, è adatto alla nostra immagine dell’io e alla nostra personalità. L’abitudine si concretizza nelle reazioni e nelle risposte che abbiamo imparato a eseguire automaticamente senza dover “pensare” o “decidere”, vengono cioè compiute dal nostro “meccanismo creativo”.
Qualcuno ha fatto l’esempio di un ballerino: egli non “decide” dove e quale piede deve muovere ma ha una reazione artistica automatica e spontanea, è con lo stesso meccanismo che i nostri atteggiamenti, emozioni e opinioni tendono a divenire abituali.
Col tempo noi “abbiamo imparato” che taluni atteggiamenti, sentimenti e pensieri sono “appropriati” a determinate situazioni, pertanto siamo portati a pensare, sentire e agire allo stesso modo ogni volta che ci troviamo di fronte a quella che, a parer nostro, è “una situazione dello stesso tipo”.
Allora cosa fare? Bisogna comprendere che queste abitudini, non sono costrizioni ed anzi, diversamente da queste, possono essere modificate, cambiate o annullate, semplicemente impegnandoci a prendere una “decisione cosciente” e quindi esercitandoci a mettere in pratica nuove reazioni, comportamenti innovativi.
Ecco che allora anche il ballerino può coscientemente “decidere” di imparare un nuovo passo e ciò non porta alcun danno artistico alla sua esibizione anzi probabilmente la arricchisce.
Affinché tutto ciò accada basta utilizzare una attenzione costante e far pratica ogni giorno finché il nostro nuovo approccio alla vita risulti del tutto assimilato ed interiorizzato.
Notazioni Bibliografiche:
– “La regolazione degli affetti e la riparazione del sé”, Allan N. Schore – Astrolabio;
– “Psicologia della felicità e dell’infelicità”, Igor Sotgiu – Carocci
– “Lavorare sulla rabbia”, Thubten Chodron – Ubaldini