Come si è costruita una religione


È difficile immaginare una zona geografica ed un periodo storico più complessi, talora confusi, ma nel contempo più interessanti, dal punto di vista storico-religioso, che la Mesopotamia dei primi anni del III Secolo d.C.. L’epoca corrisponde alla fine dell’importantissima genia dei Parti, che avevano strappato quella regione all’Impero Seleucide, iniziato con Seleuco I, dopo la disgregazione del dominio alessandrino. Commercialmente la Partia, che aveva allacciato relazioni, a est, anche con l’estremo oriente, custodiva gelosamente il monopolio sulle vie di comunicazione centro-asiatiche. La secolare lotta con i romani fu, in buona parte, il risultato della volontà di questi ultimi di impadronirsi di quelle rotte. Nel culto regnava il sincretismo, caratterizzato dall’unione di elementi ideologici inconciliabili tra loro, resa necessaria per esigenze di carattere pratico, visto l’enorme complesso di fenomeni e concezioni, determinati dall’incontro di forme religiose del tutto differenti.
Questo l’ambiente in cui era nato Mānī, l’uomo che costruì una religione. Venne alla luce il 14 aprile del 216 d.C., in un villaggio della Babilonia del nord, chiamato Mardinu. Il padre, Patek, originario di Ecbatana (attuale Hamadan), era quindi un persiano, o meglio, un parto appartenente alla famiglia reale degli Arsacidi. Della stessa nobile origine, la madre, di nome Maryam. Quando una voce miracolosa gli ordinò di non mangiare più carne, di non bere più vino e di astenersi dalle donne, Patek si recò nel deserto della Mesenia, con la famiglia, in una comune, probabilmente gnostica, di “bettezzatori”. Mānī trascorse la giovinezza in quella singolare realtà, che senza dubbio influì notevolmente sulla sua mente, ancora in formazione. Ad un certo punto, però, se ne distaccò, ripudiando le dottrine, il battesimo ed ogni altra forma rituale, sollecitato, nel tempo, da due “rivelazioni sensibili divine”, databili con una certa precisione: la prima all’età di dodici anni, la seconda a ventiquattro. Stando ad una sua autobiografia, le due teofanie gli sarebbero state fatte dal “Re del Paradiso delle Luci”, mediante un angelo che, nelle memorie, chiama “gemello” o “compagno”. Dopo la seconda manifestazione, avvenuta intorno al 240 d.C., Mānī inaugurò il suo apostolato con un viaggio in India, in quella vastissima area che, proprio allora, era stata conquistata da Re Shāhpur I e divenuta Impero Sasanide. Il sovrano, che aveva sentito parlare del nuovo annunciatore e delle sue dottrine, da alcuni nobili che ne erano rimasti affascinati, lo fece chiamare nella capitale, Gundeshahpur, nell’attuale Khūzestān (provincia iraniana, confinante con l’Iraq). Sembra che il giovane si sia recato al suo cospetto, accompagnato dal padre e da due discepoli. L’incontro, che avvenne il 9 aprile 243, fu molto importante per il neo profeta, poiché Shāhpur ne uscì scosso e favorevolmente impressionato, colpito, soprattutto, per il miracolo di guarigione, compiuto nei riguardi di sua figlia, gravemente malata e sul punto di morire. Il predicatore, che si presentava anche come medico, taumaturgo sia fisico che spirituale, chiese al sovrano di lasciar predicare i suoi missionari in tutte le terre dell’Impero. Il re acconsentì ed i discepoli si diressero, oltre che in Iran, in Siria, nelle regioni dell’Asia centrale, popolate da tribù turche, in Egitto, nel Nord Africa, a Roma ed in tutto l’Impero Romano, nell’Abarshahr, in Kushan (odierno Afghanistan), fino all’India, alla Cina ed alla Siberia. Mānī impartiva personalmente, ai suoi, le necessarie istruzioni, fornendo loro libri, generalmente miniati, completati cioè con figure decorate, ed ogni materiale per la divulgazione della sua dottrina. Quei seguaci, suddivisi in “uditori” ed “eletti”, fondarono monasteri, crearono nuovi adepti e si dimostrarono sempre pronti nel confrontarsi con rappresentanti di altri culti. Egli stesso, del resto, percorse, in lungo ed in largo, il grande impero persiano. I rapporti col re Shāhpur furono sempre ottimi e, con probabile certezza, il sovrano fu tentato, più volte, di adottare il “manicheismo” come religione di Stato. Mānī fece anche parte dello stato maggiore del suo esercito, durante una campagna militare contro i romani, probabilmente in quella condotta, tra il 256 ed il 260, da Publio Licinio Valeriano, che ne uscì sconfitto, e forse anche in quella contro Marco Antonio Gordiano Pio, meglio noto come Gordiano III, una decina di anni prima.
Due aspetti singolari si scontrarono fra loro, sempre, fin dalla nascita del manicheismo. Da una parte, il singolare e ferocissimo odio, contro di esso, da parte di tutte le religioni “organizzate”, senza eccezione alcuna, dall’altra la sua straordinaria diffusione popolare, malgrado l’intellettualistico esoterismo e l’ascetismo integralista, su cui si basava. Predicava, infatti, un’elaborata cosmologia dualistica che descriveva la perenne “lotta tra bene e male”, rappresentati, il primo, dalla luce e dal mondo spirituale, il secondo, dalle tenebre e dal mondo materiale. Mediante un perpetuo processo, all’interno della sostanza umana, la luce veniva progressivamente rimossa dalla sfera materiale e restituita a quella spirituale, governando nell’uomo, ogni aspetto dell’esistenza e della condotta.
Non vi fu, praticamente, nessun credo e nessuna scuola filosofica disposta a studiarne ed a capirne i contenuti. I mazdei, ad esempio, che professavano lo “zoroastrismo” (da Zarathustra o Zoroastro), per secoli la religione dominante in quasi tutta l’Asia centrale fino alla nascita della fede islamica, consideravano il manicheismo “l’eresia per eccellenza”. I cristiani, ben si sa cosa ne pensassero, attraverso le parole e gli scritti del polemista più noto, Sant’Agostino. E lo stesso fecero poi i musulmani, per non parlare degli ebrei, in genere piuttosto tolleranti.
Il manicheismo, non era una setta, bensì un culto, originale ed autonomo, e banali sembrarono, agli studiosi, le discussioni sulla sua origine etnica. Una vera e propria religione, quale fu quella di Mānī, non poteva essere spiegata con completezza, parlando di influssi, o contro-influssi, di strati larvatamente definiti “babilonesi”, “iranici” o “ellenistici”. Necessitava della postulazione di una personalità creatrice, quella che, secondo le varie tipologie religiose, erano il profeta, il Dio-incarnato o la manifestazione divina. Il manicheismo offrì alla storia questa personalità, quella cioè del mite e perseguitato Mānī. Che egli fosse di sangue iranico è cosa indubbia, come indubbio è che, malgrado gli influssi gnostico-cristiani o buddisti, il manicheismo stava al mazdeismo, più o meno, come l’ebraismo stava al cristianesimo. E, come quest’ultimo, i manichei ebbero coscienza di un carattere universale, la coscienza di essere pieni di traduzioni, perché la traduzione invitava alla traduzione. Il loro profeta diceva: “Prima le religioni non esistevano che in una sola regione, in una sola lingua. La mia religione è tale che essa si manifesterà, in ciascuna regione, in tutte le lingue e sarà insegnata nei paesi più lontani”.
Ma le culture tradizionali non poterono, in nessun modo, assimilare chi chiamava il loro Dio demonio ed i loro valori sozzura, invocando liberazione dalla turpitudine di ciò che esse consideravano sacro. Così quella “chiesa organizzata dell’eretico babilonese” non sopravvisse alle più forti ed ottimistiche rivali, che consideravano pernicioso il manicheismo, soprattutto perché il considerare la carne e la materia come demoniache, significava, in fin dei conti, definire “demonio” il Creatore, bestemmia assolutamente imperdonabile. Quel pessimismo teorico portava, in pratica, ad un antinomismo, cioè ad un rifiuto delle leggi o ad un sovvertimento delle medesime, inclusa quella sacra del matrimonio, che non offendeva solo il mazdeismo, ma qualsiasi altra “rispettabile” fede, insomma, tutto ciò che per il mondo era sacro.
Alla morte del profeta, il 26 febbraio 277, Sisinnio prese la direzione del manicheismo, che, comunque, sopravvisse, dopo essersi largamente diffuso ovunque e poi centralizzato solo in Oriente, fino al XII Secolo, momento della sua scomparsa. Si dissolse perché, secondo i numerosi editti imperiali e papali, essere manicheo significava essere un “fuorilegge”, punibile con la condanna al rogo ed alla confisca dei beni, come sancito da Giustiniano, sovrano bizantino dell’Impero Romano d’Oriente, nella sua raccolta di leggi del 527.
Quella del manicheismo è la prova che anche un credo religioso, nato con una rivelazione sensibile, con un’apparizione divina e, comunque, professato per circa un millennio, possa scomparire, soprattutto quando lo scontro, da sostenersi con altre realtà di pensiero, è impari e feroce. Era una presenza ingombrante, di sfondo forse, ma ugualmente ingombrante, che rischiava di omologarsi al cristianesimo ed alle altre religioni dell’antichità. Lo scorrere del tempo ha fatto, indubbiamente, la sua parte. Il manicheismo ha perso nella storia, dunque, molto più che nella società, nella cultura e nella coscienza della gente. Alla fine, come tutte le altre, garantiva, più o meno, le stesse cose, rassicurava gli uomini sugli stessi eterni problemi, primo fra tutti, il terrore della morte.