Doverose verità


“Stupor Mundi”. Così venne appellato quell’Imperatore del Sacro Romano Impero e Re di Sicilia, considerato uno dei personaggi più affascinanti della storia e “meraviglia delle genti”. Per alcuni fu l’alfiere di una nuova “età dell’oro”, per altri l’Anticristo che avrebbe voluto davvero “fare a pezzi il mondo”, smantellando il feudalismo e costruendo il primo Stato Assoluto d’Europa. Fu semplicemente un uomo del suo tempo e non quel despota rinascimentale “ante litteram”, che la tradizione ci ha consegnato.

Federico Ruggero, della nobile famiglia degli Hohenstaufen, divenuto per titolo dinastico Federico II, nacque sotto una tenda, innalzata nella piazza principale di Jesi, città delle Marche, così come volle sua madre, Costanza d’Altavilla, figlia del Re Ruggero II di Sicilia e moglie dell’Imperatore Enrico VI di Svevia.
Al pari di molti suoi colleghi, coltivava interessi scientifici, che seppe e volle approfondire, più di altri monarchi del XIII Secolo. Si distinse, con particolare dedizione, nel campo dell’ornitologia, anche se l’abilità nel “bird-watching” non può di certo essere considerata una dote sufficiente, per portare con dignità una corona. Non vanno sminuite le sue capacità di governo ed non fu quell’essere implacabile, avversario della Santa Sede, quale di solito è stato raffigurato. Nonostante abbia scritto della Chiesa: “Questa ingorda sanguisuga usa parole dolci come il miele, fluide come l’olio, ma, mentre si dichiara madre e nutrice mia, agisce da matrigna ed è causa e radice di ogni male”, fu sicuramente sincero nei molti tentativi di compromesso, perfino di conciliante arrendevolezza e, per tutta la vita, si dimostrò un genuino assertore del movimento crociato. Per certi versi si discostò dai suoi vicini di Spagna o di Francia, con una burocrazia più centralizzata in Sicilia, ancorché non di sua creazione, e con un sistema di governo alquanto decentrato in Germania. In altri casi, rimodellò alla forma primitiva ciò che aveva trovato e recitò la parte di un incallito conservatore. Era ciò che era, e ben poco nelle sue idee può essere considerato vera innovazione. Ciò che caratterizzò il suo regno, fu per i posteri l’asprezza della lotta tra Papa ed Imperatore, anche se, come si è detto, temperata da significativi intervalli di armonia, sebbene le sprezzanti parole indirizzategli da Gregorio IX: “…..una bestia furiosa, uscita dal mare, piena di parole bestemmiatrici, che apre le fauci solo per oltraggiare il nome di Dio, che con gli artigli e i denti di acciaio vuole fare a pezzi il mondo e stritolarlo sotto i piedi. Osservate la testa, il corpo e la coda di questa bestia, di questo Federico, di questo presunto Imperatore”.
Ma quando si arrivò allo scontro, non furono i pontefici, bensì i Comuni lombardi, che il nonno Barbarossa, con la Pace di Costanza del 1183, ne aveva, se non soppresso del tutto, limitato le tendenze autonomistiche, a combatterlo fortemente. Erano in gioco soprattutto questioni di politica locale e gli episodi delle battaglie di Cortenova o di Parma furono, in un certo senso, intrusioni di Federico in una guerra che, sin dalla metà del XII Secolo, si era andata trascinando tra milanesi e soci da un lato e cremonesi e relativi alleati dall’altro. Una guerra che, comunque, papi ed imperatori reputavano una grossa minaccia alla pace in Europa e speravano di comporre, imponendosi come arbitri supremi delle cose italiane. La politica di Federico fu, in una parola, dinastica. Come il Re di Francia Luigi IX o il Sovrano di Aragona Giacomo il Conquistatore, egli mirava a tramandare ai propri eredi i territori che aveva a sua volta ereditato e sottomesso. Come loro doveva decidere se ripartire equamente quei territori tra i figli o passarli in blocco al primogenito. Due fattori ne condizionavano, però, le scelte. La pretesa del Pontefice, di risolvere la questione a modo suo, cosa che di certo non poteva accettare, e l’improvvisa inaspettata ribellione del figlio maggiore Enrico che, a quel punto, si vide costretto a congedare dal trono di Germania. Negli ultimi anni della sua vita, accentrò tutte le mire di successione sul secondogenito Corrado, anche se fu, in più di un’occasione, molto più vicino all’idea papale della divisione della Sicilia dall’Impero.
Parte del fascino che ha sempre esercitato sui posteri risiede nella personalità che, per così dire, gli è stata cucita addosso. Un razionalista, un libero pensatore, un pioniere allevato nel tollerante contesto di una Sicilia semi musulmana, amico di ebrei e saraceni, insomma quel tipo di monarca di cui non è mai esistita traccia nel Medioevo cristiano, neppure in Spagna. Un giudizio di tal fatta esprime frustrazione negli storici, che devono cimentarsi con un periodo improntato ad una visione del mondo alquanto remota.
Ragionando in termini relativi, va detto che Federico II dimostrò una straordinaria indulgenza, certamente non secondo i moderni criteri di ugual trattamento dinnanzi alla legge, verso individui di fedi religiose diverse. Esternò manifestazioni di maggiore pietà, anche se meno evidenti, del suo “pio” collega Luigi di Francia. Evidenziò sinceri legami di stima e rispetto verso l’ordine monastico cistercense di Roberto di Molesme, senza trascurare pungenti critiche che, in qualità di credente, mosse all’assolutismo papale, critiche che tanta sofferenza gli crearono e che erano condivise da quasi tutti i contemporanei, incluso l’integerrimo monaco Matteo di Parigi. Ma quando si trovò suo malgrado invischiato in un’interminabile lotta contro le rivendicazioni sulla supremazia temporale della Chiesa romana e quando ricevette lo schiaffo del guanto di sfida, non seppe contrastare, con la dovuta energia, il primato morale che il papato si attribuiva nell’universo cristiano. Si preoccupò di discolparsi, non di sferrare un colpo decisivo, contro l’uomo nel quale riconosceva ancora il Vicario di Cristo.
Complici le sue innumerevoli eredità istituzionali, Re di Sicilia, Duca di Svevia, Re dei Romani, Imperatore del Sacro Romano Impero e, non ultimo, Re di Gerusalemme, Federico non fu mai lineare nell’applicazione dei propri princìpi. Questi si evolsero nel tempo ma, come è costume in politica, egli non esitò a perseguire, di volta in volta, obiettivi che ad un osservatore moderno potrebbero apparire contraddittori o, quanto meno, inconseguenti. Il fatto che abbia tentato di far rivivere l’autocrazia normanna in Sicilia, confermando allo stesso tempo il potere dei grandi feudatari in Germania, per la mancanza del potere della monarchia, ha sempre lasciato perplessi i biografi di ogni epoca. Ammesso che vi fosse un filo conduttore, questo risiedeva nel fatto che tutti i sudditi, indistintamente, dovevano godere dei loro diritti, consacrati nel tempo. Troppo si è parlato della sua nomina a “giustiziere” germanico e a vicario generale nell’Italia settentrionale, come puro e semplice conservatorismo, non precoce dispotismo illuminato. Si trovò, infatti nei pasticci quando ebbe a che fare con conflitti di autorità, nell’ambito dei suoi molti regni. La crisi cipriota e quella nata in Terra Santa, ne furono palesi esempi. E non è mai sembrato corretto che gli studiosi si siano, nel tempo, affannati tanto per risolvere tali incongruenze.
Federico non fu né un genio politico, né un visionario e gli sforzi dei suoi consiglieri, in particolare quel Pier delle Vigne che Dante incontrò nella “Selva dei Suicidi” (Inferno, XIII), di formulare una teoria della regolarità ragionevolmente coerente, diedero pochi risultati concreti e, per giunta, limitati all’Italia meridionale. L’enunciato di un programma di governo corrispose in pieno con la sua esecuzione, dando vita, ad esempio, alla monumentale architettura fortificata della Porta di Capua, all’introduzione delle Costituzioni Melfitane del 1231 ed alla creazione dell’Accademia Napoletana, fondata il 5 giugno 1224 e ritenuta la più antica università laica e statale del mondo. Visse come un principe orientale, meno di quanto ci si voglia far credere, anche se non è difficile supporre che la sua Corte, folta di danzatrici e di suonatori musulmani suscitasse impressioni stravaganti nei visitatori provenienti dal Nord. Ma il patronato umano, culturale e politico dell’Imperatore, fu soltanto una pallida ombra di quello dei suoi progenitori normanni, in parte a causa delle guerre, che ne stornarono attenzione e risorse, in parte per effetto del progressivo disimpegno della Sicilia dal mondo maomettano. Con il XIII Secolo la coesistenza dei cristiani, musulmani ed ebrei, impegnati in comuni imprese culturali con le opere di traduzione, divenne un elemento peculiare più della corte castigliana, che di quella siciliana. Il regno di Federico II segnò la fine, non la rinascita, della “convivencia” nel suo dominio meridionale. L’interesse della parabola federiciana risiede nei suoi avversari, non meno che in lui stesso, nei pontefici che si mostrarono più determinati a distruggere la sua potenza di quanto egli fu mai ad abbattere la loro. Una tragedia, a tutti gli effetti, di un uomo costretto dai denigratori ad agire in propria difesa, disilluso sul piano degli ideali, vittima di una duplice eredità dinastica. Eppure tra i suoi ideali più alti vi fu proprio la conservazione di quella eredità, non tanto per accrescere il proprio potere, quanto per trasferire, integri, a chi era destinato succedergli, i titoli, le terre ed i privilegi di cui Dio stesso lo aveva investito.
La morte lo colse il 13 dicembre 1250, nel castello di caccia, a Fiorentino di Puglia. Il figlio Manfredi, in una lettera indirizzata al fratello, Corrado IV, così espresse il proprio dolore: “Il sole del mondo si è addormentato, lui che brillava sui popoli, il sole dei giusti, l’asilo della pace”. Non fu siciliano, né romano, né tedesco, non fu un “mélange” di teutonico e latino, ancor meno un quasi islamico. Fu orgogliosamente un Hohenstaufen ed un Altavilla.