Romanziere a quarant’anni


Appassionato dell’Italia, nella quale soggiornò a lungo, tra Milano, Firenze, Ancona, Roma, Civitavecchia (come Console), Napoli e Pompei, amante dell’arte, della matematica, della poesia e del teatro, ufficiale di cavalleria sulla scia di Napoleone e poi dimissionario, Stendhal non è giunto però, ai nostri giorni, sulle ali della notorietà. Ma, focalizzando sul suo passato una mirata lente di ingrandimento, si possono scoprire, in lui, doti di grande romanziere e, molto probabilmente, riemergono alla memoria i titoli di alcune sue pregevoli opere.
Stendhal, pseudonimo di Marie-Henri Beyle, era nato in Francia, a Grenoble, in Rue des Vieux-Jesuites, il 23 gennaio 1783. Per moltissimi grandi uomini, i primi anni della propria vita non hanno mai rappresentato particolare interesse. Non fu così per lui, che si formò precocemente e la cui esistenza, tutta intera, fu condizionata dalle impressioni ricevute nell’infanzia. Rientrato, una prima volta, in Patria nel 1821, abitò a Parigi fino al 1830. Dieci anni tra i più fecondi della sua carriera di autore. Aveva già quarantaquattro anni, quando scrisse il suo primo romanzo, “Armance ou quelques scenes d’un salon de Paris en 1827” (Armance o alcune scene di un salotto di Parigi nel 1827), che circolò inizialmente anonimo. Per i contemporanei quest’opera, lungi dall’essere un colpo da maestro, risultò un vero fallimento. La giudicarono “bizzarra ed enigmatica”, rifiutando, altresì, di volerla comprendere. Si dovette attendere il saggio che gli dedicò, nel 1925, André Gide (1869-1951), per sentire, su di essa, un qualcosa di positivo: “…..di tutti i libri di Stendhal, ritengo questo il più delicato ed il meglio scritto”. La figura della protagonista, “Armance” (suggerita da una storia vera che risaliva alla Duchessa di Duras), sposa del nobile Octave de Malivert, suscitò enorme scandalo nei salotti parigini, poiché Stendhal, che si infuriava per il formalismo meschino e timorato dei contemporanei, conquistato dalla cronaca di vita vissuta, non esitò a centralizzare, nella trama del romanzo, un’intima e ambigua realtà, che nessuno fino ad allora, per malinteso pudore e falsa decenza, aveva osato trattare, cioè quella dell’impotenza sessuale. Fu sedotto, non dal carattere scabroso, ma dal risvolto moderno e, nello stesso tempo, romantico della storia.
Octave, divenuto impotente a causa di un grave incidente, sposa per sincero amore la cugina Armance. Quando le insistenti ed incalzanti maldicenze di un rivale lo convincono che la donna si è unita a lui solo per mero interesse economico, decide di andare a combattere in Grecia, per poi suicidarsi, dopo aver mascherato le proprie intenzioni e disegnato una morte da attribuirsi a cause naturali. Stendhal, all’esposizione brutale dei fatti che riguardavano il povero protagonista, sostituì allusioni talmente velate, che i lettori non seppero interpretarle. Ecco il senso di quella qualifica di enigmatico attribuita al libro.
Come per Armance, l’idea originaria di un nuovo romanzo, “Le Rouge et le Noir”, non fu sua. Lui aveva la caratteristica di mancare di fantasia. Gli era indispensabile un trampolino, donde spiccare il balzo nell’invenzione. “Il Rosso ed il Nero” trovò il suo trampolino in un altro fatto di cronaca, accaduto a Brangues, una piccola frazione di Grenoble. Il tentato omicidio del seminarista Antoine Berthet, verso la sua ex amante, Michoud de la Tour, notizia appresa dal nostro scrittore, andando a scartabellare nei resoconti della “Gazette des Tribunaux”. La storia di Berthet fu piuttosto squallida. Quella di un arrampicatore sociale di mediocre intelligenza, che cercò con ogni mezzo di entrare nella carriera ecclesiastica, pur intrattenendo relazioni colpevoli nelle famiglie, da cui veniva accolto come precettore. Smascherato, colpì la donna che si era lasciata sedurre e l’aveva poi denunciato. Stendhal, in realtà, non si interessava affatto alle circostanze del crimine. Quello che lo appassionava erano i movimenti ed i dati psicologici. L’atmosfera de “Il Rosso ed il Nero” è ben diversa dalla miserabile realtà. Al contrario, è quasi eroica. Il personaggio principale, Julien Sorel, non è un arrivista, bensì un ambizioso, nel senso nobile del termine. Personifica un’intera generazione, quella dei plebei intelligenti e desiderosi di elevarsi, che avrebbero avuto una strada sicuramente più aperta, se fossero nati un po’ prima. Sotto l’Impero, come scrisse altrove l’autore, “il più modesto garzone di farmacista, al lavoro nel retrobottega, era agitato dall’idea che, se avesse fatto un’importante scoperta, avrebbe avuto la Croce d’Onore e sarebbe stato fatto Conte”. Ma l’Impero era crollato e la restaurazione aveva riportato in auge le antiche caste feudali, con il loro codazzo di privilegi. Alfred de Musset (1810-1857), una delle figure più emblematiche del romanticismo letterario francese, scriveva: “Quando i fanciulli parlavano di gloria, si diceva loro di farsi preti”. Lo scrittore, evocando quella che non molto tempo dopo si sarebbe chiamata lotta di classe, usa accenti nuovi. Apre al romanzo tutto un campo d’azione inesplorato e, fino ad allora, non sfruttato. Qui è la spiegazione del titolo, titolo che fece versare fiumi di inchiostro. Si volle vedere, nella contrapposizione dei due colori, una chiara allusione alla roulette, all’azzardo del gioco. Nel caso, però, sarebbe dovuto essere “la rouge” e “la noire”. Non fu questo il motivo. I due colori sono un chiaro segnale di antitesi tra la carriera militare, che Julien avrebbe voluto per sé, ma che non gli fu permessa per ceto e lo stato ecclesiastico, l’unico rimastogli per emergere, stato che nel momento di accogliere l’amore di Matilde de La Mole, ricca fanciulla della nobiltà, lo mette a confronto con gli altri seminaristi, che sono tutti, al contrario di lui, degli spudorati arrampicatori. La tensione, piena di nostalgia, verso una vita eroica, guida i pensieri e le azioni di Julien. Egli premedita il delitto, che intende compiere lucidamente e non in uno stato di aberrazione. Vuole, uccidendo, lavarsi dall’accusa di aver tessuto meschine trame, di aver sedotto Matilde per un riscatto sociale ed imporsi, tramite lei, in società. Il libro può essere considerato il primo romanzo moderno. Né l’intreccio, né i personaggi rivelano una fantasia sfrenata. Tutto riposa su dati psicologici. D’altra parte, Stendhal, mentre dà interiorità al racconto, fornisce allo stesso un preciso posto nella storia contemporanea. Il sottotitolo, “Chronique du Ventième Siècle” (Cronaca del Ventesimo secolo), non è del resto un semplice richiamo.
Nel 1833, a Roma gli accadde di mettere la mani su dei manoscritti italiani ingialliti dal tempo e coperti di polvere. Felice della scoperta, convinto fossero dei pezzi unici, si affrettò a farli copiare. Scartò comunque l’idea di utilizzarli come aveva fatto in precedenza. Non si sentiva dotato per il romanzo storico e non lo amava. Dopo un nuovo ritorno in Francia, nel 1836, e dopo aver pubblicato quattro novelle, tratte da storie italiane, “Vittoria Accoramboni”, “I Cenci”, “La Duchessa di Palliano” e “La Badessa di Castro”, la sua fantasia si mise in moto, gli eroi presero vita e la trama si sviluppò, quasi per virtù propria. Così accadde che, a Parigi, spinto da un’ispirazione improvvisa, in una volontaria reclusione durata cinquantadue giorni, dal 4 novembre al 26 dicembre 1838, dettò d’un fiato ad un copista, unico contatto esterno, “La Chartreuse de Parme”, “La Certosa di Parma”, ultima opera monumentale che, incontestabilmente, costituisce il suo capolavoro, rivelando una volta di più la fascinazione che Stendhal provava per l’Italia, un paese diametralmente opposto ad una Francia bigotta della Restaurazione e del Congresso di Vienna.
Nel racconto vi sono molti riferimenti storici, che spaziano tra il 1821 ed il 1831. Tornano più volte il nome di Silvio Pellico e quello dello Spielberg, non collegati a fatti vissuti. Troneggiano, come personaggi, quello curioso del carbonaro Ferrante Palla, moderna incarnazione di eroe del Rinascimento e, soprattutto, quello di Clelia Conti, una delle eroine più dolci e più tenere, tra quelle uscite dalla fantasia di Stendhal, contrapposta alla duchessa Sanseverina, appassionata, energica e volitiva. Clelia è una piccola seguace del liberalismo, che in lei diventa una risorsa drammatica e l’accomuna alle “amazzoni” stendhaliane, da Vanina Vanini a Lamiel, da Matilde de La Mole a Mina di Vanghel. Proprio a causa dei suoi principi liberali, Clelia si trova nella situazione di dover scegliere tra l’amore filiale e quello smisurato per Fabrizio Del Dongo, il protagonista, un giovane milanese, figlio naturale di una nobildonna e di un soldato napoleonico, rinchiuso, per tutta una serie di eventi, nella Torre della città emiliana. Sebbene Stendhal incentri il suo romanzo sulla Cittadella di Parma, è pur vero che la trama faccia riferimento a Castel Sant’Angelo di Roma, dove, nella realtà, Alessandro Farnese, il futuro Papa Paolo III, scontò una prigionia, a seguito di un rapimento amoroso. Un’atmosfera lirica, quasi onirica, si sovrappone alla cornice storica contemporanea. Un’Italia eroica palpita sotto la penna del romanziere che invecchia, chino sul suo passato, un’Italia voluttuosa, il paese della bellezza, della felicità, della tenera gaiezza. Le avversità hanno un bel accanirsi sui protagonisti, non li affondano mai nell’amarezza e nella rivolta, nella collera impotente. Essi non conoscono né decadenza, né degradazione morale. Stendhal rivisse, scrivendo “La Certosa di Parma”, la meraviglia, che fu dell’adolescente Marie-Henri Beyle, nello scoprire l’Italia nel 1800. È un canto di felicità e di fede, un canto profondo e ricco di significato. È l’inno di tutta un’esistenza, votata ad un Paese, non suo, ma che tanto amò. Per questo motivo, i libri di Stendhal non invecchieranno mai.