Il grande rifiuto


È stato umiliato dal Papa, perseguitato ed intimorito dall’Inquisizione, sospeso “a divinis”, ridotto allo stato laicale e cacciato come l’ultimo dei peccatori. L’unico suo peccato, quello di non aver voluto tradire il proprio apostolato, di aver voluto onorare la parola data ed offrire il sostegno della fede ad un amico sul letto di morte.
Giovanni Luigi Marrocco naque a Poirino, un paese non lontano da Torino, il 10 marzo 1808. Terminati gli studi e conseguito il diploma ginnasiale, entrò nel convento dei frati minori riformati di San Francesco, dove, nel novembre del 1827 pronunziò i voti, assumendo il nome religioso di Frate Giacomo. Dopo aver percorso una tranquilla e regolare carriera ecclesiastica, nel 1849 approdò alla carica di parroco, nel Convento di S. Maria degli Angeli, a Torino.
Era quella la parrocchia della famiglia Benso di Cavour. Frà Giacomo, da subito, allacciò con essa rapporti di buona amicizia e di confidenziale frequentazione, soprattutto verso il Conte Camillo, apparso molto attento ed assiduo nell’impegno di attività caritatevoli, a favore dei più bisognosi in città. Un pomeriggio del 1854, in uno dei pochi, liberi dai gravosi affari di stato, nel pieno di un’epidemia colerica che stava straziando il Piemonte, “siccome anche i ministri potevano essere colpiti dalla malattia, al pari di qualsiasi altro individuo”, e premendogli molto morire con la consolazione religiosa, sorseggiando un tè e parlando del più e del meno, Cavour gli chiese insistentemente di assisterlo con i conforti religiosi, “quando un domani sarebbe magari venuto il suo momento”. Il frate lo rassicurò con rasserenante e determinata disponibilità.
Alla fine di maggio del 1861, lo statista, assillato da un’altalenante, ma sempre presente, febbre malarica, contratta in gioventù nelle risaie familiari del vercellese, fu colto da un improvviso malore. Consapevole di essere ormai ad un passo dalla fine, il 5 giugno fece chiamare al suo capezzale Frà Giacomo da Poirino, per ricevere l’amministrazione dei sacramenti. Cavour era cattolico, seppure non praticante, e si preoccupava che la sua morte, senza un assenso consacrato, sarebbe potuta essere fonte di uno scandalo nella società torinese. Era stato colpito dalla scomunica, con la quale, il 26 marzo 1860, Pio IX lo aveva punito per il suo impegno politico nel contrastare i privilegi della Chiesa e nell’attentare al potere temporale del Papa. Il frate mantenne fede alla vecchia promessa, confessò il “nemico della Chiesa” e gli impartì l’estrema unzione, non attenendosi, di fatto, alle norme pontificie. Secondo la bolla papale, Camillo Benso Conte di Cavour, come ogni penitente, avrebbe dovuto compiere una pubblica ritrattazione dei gravi atti compiuti contro la Chiesa. Solo allora la confessione sarebbe stata valida e la remissione dei peccati efficace. All’indomani, il 6 giugno 1861, lo stratega dell’Unità d’Italia, spirò.
Immediatamente la notizia dell’avvenuta assoluzione di Cavour, in punto di morte, suscitò enorme clamore. Quel ferreo uomo di Stato aveva realmente ritrattato il suo irremovibile principio, “Libera Chiesa in libero Stato”? Molte voci lo confermavano, molte altre lo smentivano categoricamente. Tant’è che, nel momento in cui la vicenda stava rischiando di far esplodere un’accesa dilagante polemica, Gustavo Benso, fratello maggiore di Camillo, pose fine alle discussioni con uno schiacciante ed inequivocabile comunicato che negava ogni avvenuta ritrattazione.
Dell’accaduto, giunse eco al Pontefice, il quale con immediatezza convocò in Vaticano il “colpevole” monaco. Dalle parole di quest’ultimo, Papa Mastai Ferretti fu costretto a constatare che né il Conte aveva manifestato alcun ravvedimento, né il frate glielo aveva richiesto. Pertanto, la normativa sacramentale era stata disattesa, trascinando con sé tutte le naturali conseguenze, pastorali e non solo, che un tale vicenda, divenuta di dominio pubblico, avrebbe sicuramente arrecato. Frà Giacomo cercò di giustificare la sua scelta, affermando di aver agito solo ed unicamente in veste di sacerdote. Pio IX, visibilmente contrariato ed adirato, per tutta risposta invitò il francescano a riparare all’errore, riconoscendo, con una dichiarazione scritta, di non aver colpevolmente rispettato le norme emanate con la bolla dell’anno precedente o, in alternativa, certificando l’avvenuto pentimento di Cavour, per l’accanimento contro il potere temporale della Chiesa. Ma il religioso si oppose, ribadendo con rinnovato vigore, ancora una volta, di aver compiuto solo il proprio dovere sacerdotale, quello cioè di accogliere tutti coloro che chiedevano di confessarsi da lui, e rifiutandosi di rinnegare il proprio operato, confermando la validità misericordiosa dell’assoluzione, davanti ad un’anima in cerca di Dio.
Fu costretto, quindi, a dover affrontare l’esame dell’Inquisizione, con minacce sottili ma palesi, tenendo testa ad un interrogatorio subdolo e pressante, accusato altresì di essere un birbante, uno zuccone, un ignorante. Comunque non si arrese. Gli sarebbe sicuramente bastato, per risolvere la controversia, sostenere, mettendolo per iscritto, che nella confusione del momento, agitato, triste e sicuramente sbagliando, non aveva minimamente pensato di chiedere al Conte una sconfessione del proprio disegno politico. Soffrendo ed esitando appena, Frà Giacomo chiese perdono per non poter tradire la propria coscienza ed infamare se stesso, dichiarandosi pronto a patire ogni sacrificio, perfino la morte, piuttosto che cedere e dimostrando, in quei momenti terribili, fermezza e dignità non comuni. Preso atto della sua irriducibile volontà, Pio IX, offeso ed indignato, decise di sospenderlo “a divinis”. Per la storia, quella sanzione non fu tesa a colpire il sacerdote che aveva assolto uno scomunicato, bensì il suo ostinato rifiuto di riconoscere il grave errore commesso. Quel frate, atipico e straordinario, rischiò di perdere la libertà, di non tornare più a casa. Ma alla fine, in un clima politico così inquieto ed ostile, le corali pressioni del Governo piemontese ed il timore di fare di lui un martire, consigliarono di lasciarlo libero, ad un destino infausto e laico.
Dopo ventuno anni di infernali patimenti, Frà Giacomo da Poirino, alla fine chiese perdono. E lo fece con una supplica, indirizzata al nuovo Pontefice, Leone XIII, nel 1882, con cui invocava clemenza per il comportamento tenuto nel 1861 e per il quale era stato sospeso “a divinis”. Il religioso riconosceva la giusta e meritata pena inflittagli da S.S. Pio IX e, contrito, esprimeva il desiderio di non “morire così”, senza essere riammesso al ministero sacerdotale. La sua riammissione, fu concessa nei primi mesi del 1884, quattordici anni dopo la Breccia di Porta Pia, che segnò la fine del potere temporale della Chiesa e circa un anno prima della morte, avvenuta a Torino il 30 settembre 1885, in assoluta solitudine e misera povertà.
Si concludeva così, con una riconciliazione, la vicenda terrena di Padre Giacomo, figura di alto spessore, coerente al suo ruolo, vicino, umanamente e spiritualmente, anche ai potenti, senza mai chiedere nulla, così come nulla concedere, se non amicizia ed aiuto. Fu un modello di ecclesiastico che seppe ascoltare e cercò di comprendere, non oltrepassando mai i confini delle proprie competenze. E se accadde, egli espresse il proprio pensiero senza voler influenzare e tanto meno mercanteggiare, convinto che quanto era suo compito concedere, non aveva né prezzo né imposizione per alcuno.