Il mondo delle “spie”, tra romanzo e realtà (2a parte)


Si è detto, nella prima parte, dello scrittore Upton Sinclair, sognatore, infiammato dai temi della povertà sociale, che non riuscì mai ad evidenziare, nei personaggi dei suoi numerosi romanzi, le peculiarità della “Intelligence”. Analogo discorso, vale anche per Mr. Moto, importante funzionario dei Servizi segreti del Sol Levante, che ci conduce in estremo oriente, dove non spirano di certo venti di pace per l’imminente riesplosione del conflitto cino-giapponese (1937). Il soggetto nasce dalla penna di John Phillips Marquand (1893-1960), scrittore ben noto nella letteratura nordamericana della prima metà del Novecento che, dopo aver frequentato con insufficiente successo l’Accademia Militare di West Point e dopo aver combattuto in Francia, al ritorno in patria, si divise tra il giornalismo e la pubblicità, vincendo, tra l’altro, il “Premio Pulitzer”, nel 1937. Il Signor Moto, è giapponese minuto, con capelli nerissimi tagliati a spazzola, che veste elegantemente, all’europea, concedendosi, di tanto in tanto, un abbigliamento sportivo. Ha studiato negli Stati Uniti ed orgogliosamente entusiasta di ciò. Complimentoso fino all’eccesso, sorride “in oro”, per via di una vistosa dentatura quasi completamente incapsulata. Anche lui, del tutto estraneo alle intese dinamiche dello spionaggio e del controspionaggio, senza volerlo si trova al centro di una subdola contesa tra i Servizi nipponici e quelli russi. Dalla Manciuria, regione della Cina occupata dal Giappone nel 1931 ed obbiettivo di un’invasione sovietica, in gran parte a bordo di lenti treni, di auto sbuffanti o in sella a quadrupedi di ogni razza, in possesso di un portasigarette d’argento contenente un messaggio dal quale dipende l’azione militare dei Russi contro i Giapponesi, è diretto (particolare di scarso rilievo) in Mongolia. Vedrà, comunque, risolti tutti i suoi affari, sia privati che di cuore, dal momento che non vi sarà alcuna occupazione ed incontrerà, in quella regione, un’eroina perfetta per essere amata.
Il contributo offerto da Marquand alla letteratura di “Intelligence” è piuttosto scialbo e banale. A differenza di altri autori del genere spionistico, non è stato un buon profeta degli avvenimenti e delle calamità di politica internazionale. Il Signor Moto voleva, in definitiva, testimoniare allegoricamente, a suo modo ed in ambito molto particolare, quanto l’attacco giapponese del 7 dicembre 1941, a Pearl Harbor contro la flotta americana, fosse aggiunto inatteso e proditorio, mentre i Russi occuperanno la Manciuria solo nella primavera del 1945. Comunque, l’aria che si respira nelle avventure di Mr. Moto, è proprio quella della dissennata trascuratezza degli anni Trenta, quando fare o non fare una guerra appariva simile ad un arrocco sulla scacchiera. Il nostro pseudo agente si muove con leggerezza quasi aerea, dove la vita umana sembra una sciocchezza, da spazzar via con o senza silenziatore.
Se Sinclair e Marquand sono lontani dal mondo dello spionaggio, Eric Ambler (1909-1998) vi è immerso fino al collo. Inglese, scrittore, giornalista, sceneggiatore cinematografico, ha goduto di una lunga vita ed ha scritto tantissimo. Il poliziesco e lo spionaggio sono i suoi generi preferiti. Ha avuto la perspicacia di capire che il romanziere doveva conciliare due peculiarità, a prima vista incompatibili, cioè il gusto delle situazioni che tengono con il fiato sospeso, e che si risolvono in un inatteso colpo di scena, con la raffigurazione della credibilità, del verosimile, della realtà. Amber percepì tutto ciò e si pose uno statuto narratologico al quale, in linea di massima, provò sempre ad essere fedele. Caratteristiche che appaiono evidenti ne “La maschera di Dimitrios”, il romanzo che lo rivelò al mondo e che probabilmente deve la sua fortuna ad un azzeccatissimo titolo. Un certo Latimer, Agente segreto con l’hobby di scrittore di libri gialli, di passaggio ad Istanbul, apprende che nelle acque del Bosforo è stato ripescato il cadavere del noto criminale Dimitrios Makroupolos e che, di sicuro, non è morto per cause naturali. Incuriosito dalla cosa, vuole vederci chiaro. Viene a conoscenza che committenti attivi sono i Servizi segreti italiani, nel contesto di una clamorosa operazione di spionaggio militare. Ad un certo punto, appare sulla scena un certo Peters, uomo grasso, dall’aria malsana, tipica di chi mangia troppo e non dorme abbastanza, complice di Dimitrios nel traffico di stupefacenti. Costui, capito che il compare è ancora vivo ed il corpo rinvenuto non gli appartiene, decide di imbastire un ricatto nei riguardi del finto defunto: un milione di franchi in cambio del suo silenzio. Dimitrios non è certo tipo da lasciarsi ricattare. Dopo un’incessante sequela di colpi di scena, di fughe e di inseguimenti, nel corso di una lunga sparatoria, ricattato e ricattatore si accoppano a vicenda, sparatoria dalla quale Latimer si salva per miracolo. “La maschera di Dimitrios” è stato scritto in modo essenziale, senza bardature letterarie. L’Agente segreto, quando possibile, agisce a distanza ed è un bravo e solerte funzionario, forse meno eroico e meno romanzesco, aspetto di sé che lo rende più vicino al lettore.
La “Guerra Fredda” ha di sicuro caratterizzato un’epoca. La latente ostilità di due mondi separati da quella che Winston Churchill definì la “cortina di ferro”, avvantaggiò fortemente la letteratura di Intelligence, offrendo un terreno fecondo ed interpretando problematiche fino ad allora “top secret”. La prospettiva di una terza guerra mondiale appariva sempre più remota, non per un’improvvisa conversione dell’umanità alla pace, ma perché gli arsenali bellici disponibili convalidavano la gelida profezia di Arbert Einstein, il quale alla domanda su “quali armi sarebbero state impiegate nella terza guerra mondiale?”, rispose “di essere sicuro che la quarta sarebbe stata, senza ombra di dubbio, combattuta con i sassi!”.
I dilemmi, spettanti all’agente segreto, si moltiplicavano e si complicavano. Le storie di spionaggio dovevano a tutti i costi escogitare sempre nuove trovate. La spy story dilagava, assumendo le vesti di una letteratura di massa o, come da alcuni definita, una sottoletteratura. I contenuti, sempre più simili a sceneggiature, sembravano scritti tutti da una stessa mano, con una asciuttezza non più imposta dal pudore dei sentimenti, bensì premeditata, finalizzata al cinismo ed alla crudeltà dei contenuti. Si arricchiva di erotismo e di sadismo, ambientata sotto docce, in vasche da bagno o in facili alcove.
Il posto d’onore, tra gli autori di questo filone, spetta senza dubbio a Ian Lancaster Fleming. Forse non è il più bravo, ma il suo eroe, l’Agente 007, sia pure fortemente aiutato dalle platee cinematografiche, ha conquistato l’attenzione e la simpatia di mezzo mondo. Fleming (1908-1964), londinese, di buona famiglia, aveva studiato ad Eton ed al Collegio Militare di Sandhust. Buon atleta, amante dei libri, senza peraltro consumarsi su di essi, aveva viaggiato molto come giornalista inviato. Nel 1939 entrò a far parte dei Servizi segreti della Marina Militare. Solo nel 1953, a quarantacinque anni, inaugurò la collana di James Bond con il libro “Casinò Royal” e, in tutto, gli dedicò una quindicina di romanzi. Quando Fleming scomparve, prematuramente, a causa di alcune evitabili “intemperanze” di comportamento, le stesse, peraltro, di cui godeva il suo personaggio, la fama lo aveva appena avvicinato. Un destino beffardo non gli permise di godere l’apoteosi della sua particolare creatura, “007”. Ma perché quella misteriosa numerazione? “Non è molto difficile diventare un Doppio Zero, quando si è disposti ad uccidere…..Devo la mia sigla, e non c’è molto da esserne fieri, al cadavere di un giapponese esperto in codici segreti, a New York, e a quello di un norvegese doppiogiochista, in Svezia”, racconta lo stesso Bond ad una bellissima “girl”, durante la scena di un suo film, ripetendo una macabra realtà. Infatti, nei primi romanzi di Fleming fa capolino l’Agenzia “SMERSH”, contrazione di “Smjert Shpionam” (in russo “morte di spie”), braccio secolare dei Servizi sovietici. A tale meccanismo è stata attribuito, ad esempio, l’assassinio di Lev Trotzky, nell’agosto del 1940. Fleming, forte della propria esperienza professionale, non è stato soltanto un narratore, compiaciuto del suo narrare. Conosceva anche i toni notturni, tenebrosi e non romanzeschi, di quella vita. Le Chiffre, pericoloso Agente d’oltre cortina, che si è furtivamente appropriato di un cospicuo fondo del KGB, acronimo di Komitet Gosudarstvennoj Bezopasnosti (Comitato per la Sicurezza dello Stato), deve coprire l’ammanco in tempi molto stretti, ricorrendo al gioco d’azzardo. Bond vuole impedirgli di vincere, affrontandolo al Casinò. Alla fine, dopo essere stato catturato e torturato da Le Chiffre, riesce nell’intento, con l’aiuto di una bellissima collega, Vesper Lynd, della quale, corrisposto, si innamora, scoprendo, ahimè, che anche lei è una spia sovietica. La donna, disperata, si suiciderà per amore e per rimorso.
Fleming si differenzia dai compagni di cordata per due ragioni. Perché volta le spalle al mito dello scrivere conciso e perché non esita ad innestare, sul tronco della “spy story”, i fronzuti rami del romanzo rosa. Bond riesce a fondere avventura e glamour, da vero e proprio eroe senza macchia e senza paura, che non vive e non può vivere nella banale quotidianità. In Ian Fleming, l’Agente 007 con “licenza di uccidere”, affrancato dalle incomprensioni e dai pregiudizi sedimentati storicamente, pur sempre in solitudine, nell’ombra, costretto, dal suo stesso ruolo, a rendersi anonimo ed a rinunciare al grigiore della routine quotidiana, smette di essere uno come tanti e si presenta alla ribalta per rivendicare il proprio status di paladino dei tempi moderni.