Il politico conservatore – La Repubblica come … bene patrimoniale


In queste ore, al messaggio di settimana scorsa di PIL 2020 a circa 1600 miliardi, si aggiunge un corrente annuo del debito pubblico a 2600 miliardi.
E, come è in perfetta linea logica, si riprende a parlare di Tassa patrimoniale.

Sostengo da anni, almeno 20, la necessità dell’Italia di uscire dal tunnel del non-sviluppo.
I rapporti tra Debito pubblico e PIL, cioè la conseguente al PIL capacità di tassazione dello Stato per sostenere un rapporto naturale e corretto col debito, sono sballati da almeno 30 anni e le mortali condizioni dell’economia industriale italiana prevedibili da 45.
È mancata totalmente visione, non ai nostri imprenditori, che a folate di settore hanno fatto quanto potevano e anche di più, ma ai nostri governi. Loro son stati la causa dell’azzoppamento dei settori strategici prima degli anni 70, nascondendo poi sotto il fumo del ’68 e degli anni di piombo il vero altro terrorismo che colpiva la nazione italiana e la sua Repubblica: i 4 sgambetti storici che hanno distrutto la capacità competitiva del nostro sistema industriale, e cioè i casi Divisione elettronica della Olivetti (e via l’elettronica, da piccola…), Rovelli (e via la chimica fine), Ippolito e Mattei (e via l’autonomia energetica).
Ogni uomo d’economia minimamente avveduto sapeva già allora che il gioco per lo Stato Italiano era fatto. Che se non era stato scomposto con la guerra ed era stato lasciato in una condizione di sovranità limitata era solo per il pericolo sovietico e Yalta. Ma non gli si sarebbe lasci spiccare il volo come, con le sue energie naturali, avrebbe voluto e potuto.
Poi succede che negli anni ’90 in 10 anni si conclude un ciclo semi-chiliastico globale, con un drenaggio enorme di PIL da parte dell’economia USA (allora ancora si poteva chiamare così), già fatta di grandi multinazionali di successo. Le quali portano però al ribaltamento, ancora in corso, tra potere politico e strategico e potere economico: una inversione dei poli repentina, che era lentamente avvenuta all’inverso per 5 secoli di rivoluzione industriale, spostando lentamente il potere a un polo soltanto degli equilibri pre-industriali, quello economico, sforzando gli Stati a recuperi per la salvaguardia dei propri poteri e rappresentatività civili.
Ed ecco in pochi anni il ribaltamento, l’inversione polare. Il suo nome? Globalizzazione.
Prima erano gli Stati a fare i conti alle aziende, dalla fine dei ’90 sono le aziende a fare i conti agli Stati. Inizia quell’epoca neo-feudale che avevo previsto già alla fine degli ’80, dove i feudi sono i settori industriali mondializzati concentrati nelle mani di 1 o 2 soggetti e la loro finanza enorme e viva, contro quella minore e improduttiva degli Stati.
Appaiono sempre più forti le politiche di svuotamento dei contenuti referenziali degli Stati, un poco ovunque. In particolare se la politica cerca di andare oltre il suo ruolo sostanziale, divenuto quello di gestire al minimo i livelli dei poveri improduttivi (In Italia non per colpa propria), viene bastonata nella sua dimensione di rilevanza istituzionale e messa brutalmente di fronte ai suoi limiti, con tragici effetti per le democrazie, che si dimostrano inefficienti senza alle spalle la grande economia e, va detto anche, senza abbastanza cervello.
Ecco spuntare perdenti sovranismi pronti alla ghigliottina globale e subdoli venditori di Sparta al soldo dei Serse-globalizzatori.

A parte i toni coloriti per farsi leggere meglio, ciò che ho descritto è natura.
I suoi effetti, naturali.
La Stato della Repubblica Italiana ha fatto vivere i suoi titolari al di sopra delle sue possibilità per troppi lustri ormai, senza avviare quel ciclo di crescita economica che soltanto avrebbe potuto avviare insieme ai privati dell’HoReCa e delle nicchie caratteristiche italiane, per fare esplodere ciò che sarebbe possibile: il PIL italiano con l’economia Turistica Integrata e con l’industria identitaria.
Ora, forse nemmeno più quel colpo di reni è possibile: con il debito pubblico a 2600 e il PIL a 1600, e con 200 miliardi di altro debito Recovery Fund in arrivo per la sopravvivenza e la speranza, ma subordinati diciamo pure, genericamente, alla “solvibilità”, nemmeno il coraggioso e intelligentissimo piano da 500 miliardi in più di PIL che Io da 20 anni ipotizzo cui si aggiunge forse ancora qualcosa di resilienza economica può salvare questa Repubblica nel suo formato patrimoniale attuale.
Ecco la parola detta. Patrimoniale attuale.
Patrimoniale.
Lo Stato, guidato in questi lustri soprattutto da poveri incompetenti e vari disgraziati eterodiretti, ha lasciato a noi un corpo mezzo cieco e mezzo sordo e un’economia castrata. Chirurgicamente, nell’antichità degli anni ’60 l’industria e, adesso, forse il colpo di grazia. Come? Con uno Stato che, anzichè ergersi responsabilmente a imprenditore, a socio del suo popolo nello sviluppo possibile, che è tanto e forse ancora abbastanza per salvare capra e cavoli e farne la pietanza utile a noi, si appiattisca sulle giuste pretese di equilibrio degli “altri”, cucinando per loro capra e cavoli e non per noi.
Se fosse così, forse non c’era bisogno di Draghi. Bastava Di Maio, ma probabilmente ci sarebbe stata l’insurrezione. Speriamo che non sia così.

A Draghi si deve chiedere il grande sforzo di uno Stato che diventi imprenditore, rischiando insieme ai privati per ECONOMIA TURISTICA INTEGRATA ed ECONOMIA IDENTITARIA, unici settori in cui scovare i 500 miliardi di PIL in più che servono per drizzare la baracca, e che metta questo sviluppo del PIL al centro urgente del suo programma per il Recovery Fund.

Tenendo buoni i cani giustamente affamati che reclamano la nostra carne.