Le facce del Dolore (2a parte)


Il chimico americano Leo Sternbach, a cui di deve, come si ricorderà, la sintetizzazione, nel 1955, delle “benzodiazepine”, la principale classe di psicofarmaci, affermava che, nell’uomo, il limite di sopportazione a forti scariche elettriche era condizionato, in grandissima parte, dalle regioni di provenienza e, con un occhio particolare rivolto al mondo femminile, si accorse che le donne mediterranee, ad esempio, le tolleravano meno di quelle nord americane o di etnia ebraica.
Il polacco Leopold Zborowski, uno dei più famosi mercanti d’arte del XX Secolo (a cui il pittore livornese Amedeo Modigliani, suo grande amico, fece un ritratto) ed instancabile viaggiatore, raccontava che gli indiani pellerossa avevano un contegno assolutamente unico, nei confronti della sofferenza: “Quando il dolore è intenso, si preoccupano di appartarsi. Piangono o si lamentano, soltanto quando sono soli. Gli ebrei e gli italiani, invece, gemono ad alta voce, cercando apertamente sostegno e comprensione”. Anche se distinguere ebrei ed italiani non è, a prima vista, del tutto corretto. Moltissimi ebrei sono italiani, o viceversa. Se osservati, invece, da un punto di vista etnico, gli atteggiamenti che sono alla base del comportamento dei due gruppi testé citati sono, per certi versi, differenti. Come qualcuno sostiene, i primi si preoccupano del significato e delle complicazioni del dolore, mentre gli altri, di solito, manifestano il desiderio di un sollievo immediato.
Tornando ai nativi americani, su di loro l’antropologo Clark David Wissler, che raccolse i propri studi in un trattato del 1940 dal titolo originale “Indians of the United States”, asseriva che soltanto le cerimonie di iniziazione, di auto-tortura come quelle della “Danza del Sole”, davano l’esatta percezione del margine estremo a cui un essere umano poteva arrivare, nella tolleranza del dolore fisico. Ad ogni partecipante venivano praticate, su ciascun lato del torace, due incisioni diametralmente opposte, fatte con un coltello affilatissimo ed appuntito. Due lame venivano poi infilate nelle aperture della carne e spinte, sotto la cute, fino a farle fuoriuscire dalle altre lacerazioni. La prova, che aveva finalità religiose e guerriere, una volta conclusa, dava al giovane la possibilità di entrare nella schiera dei guerrieri, di guadagnarsi la stima della propria gente e di iniziare favorevolmente la strada verso il successo e la fortuna. Una dimostrazione, quindi, di sopportazione estrema, tesa ad ottenere il più alto e definitivo obbiettivo finale.
L’evidente influenza dei fattori etnico-culturali, induce ad esaminare il ruolo delle pregresse esperienze infantili, nel comportamento dell’adulto, rispetto al male fisico. E’ comunemente accettato che i bambini vengono condizionati profondamente dalla condotta abituale dei genitori. Questi ultimi, in molti casi, si preoccupano enormemente per banali ferite o contusioni, mentre altri mostrano indifferenza e superficialità, persino nei confronti di traumi piuttosto gravi. E’ ragionevole credere che modi di fare come questi costituiscano, e rimangano, un indelebile bagaglio comportamentale, conservato dal bambino fino all’età adulta.
La variabilità, soprattutto mentale, come già detto, influenza fortemente il grado e la qualità del dolore percepito. Durante l’ultimo conflitto mondiale, Daniel Beecher, capitano medico della US Army, l’esercito americano, osservò, e relazionò, il comportamento di molti soldati, gravemente feriti in battaglia. Rimase stupefatto nel constatare che, quando venivano trasportati negli ospedali da campo, soltanto uno su tre si lamentava, tanto da implorare la somministrazione di morfina. La maggior parte di loro minimizzava il problema, negando di provare dolore o giurando di avvertirne così poco, da non richiedere alcuna medicazione. Il medico mise in evidenza che, paradossalmente, alcuni di quegli stessi uomini, svenivano o si spaventavano enormemente, alla sola vista di una semplice iniezione endovena. Quando Beecher, terminata la guerra, ritornò alla sua abituale pratica clinica, incominciò a studiare comportamenti di ricoverati civili che presentavano ferite, accidentali o chirurgiche, simili a quelle ricevute in precedenza dai suoi soldati. Alla richiesta se desideravano o meno essere trattati con dosi di morfina, ben quattro su cinque, in media, accusavano atroci sofferenze, scongiurando per il farmaco. E’ opinione scontata che quanto più sia appariscente una ferita, tanto più forte debba essere avvertita la sensazione del male, anche se, come si è visto, tale convinzione non è sostenuta da osservazioni fatte nelle zone di combattimento. Questo perché, i feriti di guerra sopravvissuti, nella stragrande maggioranza dei casi, provavano, alla fine, solo emozioni di sollievo e, soprattutto, di gratitudine per essere usciti vivi dal campo di battaglia. La gioia che cancella la tribolazione.
Vi sono esempi, familiari e non, di relazione al dolore che non si discostano di molto da quanto or ora detto. Ad esempio, uno sculaccione dato ad un bambino mentre gioca, può essere ignorato dallo stesso o, addirittura, può provocare una risata. Il medesimo gesto, fatto in un contesto differente, per una marachella o una disobbedienza, può provocare, nel fanciullo, lacrime e strilli. Da esperienze maturate presso studi dentistici, è stato notato che pazienti giunti la mattina presto, dopo una notte insonne, che lamentavano un dolore feroce, una volta seduti sulla poltrona odontoiatrica, non avvertivano più alcun disagio, al punto di non ricordare nemmeno quale era il dente interessato. Una sollecitazione insopportabile, che diminuisce o svanisce del tutto, per la sola consapevolezza di un possibile intervento riparatore.
Solo suggestione quindi. Una suggestione, che associata alla manipolazione dell’attenzione, costituisce il particolarissimo fenomeno dell’ipnosi. Lo stato ipnotico sfugge ad una precisa definizione. Il “sonno artificiale” è una condizione di trance, nella quale la concentrazione del soggetto da ipnotizzare è intensamente ed esclusivamente focalizzata solo sull’ipnotizzatore. Quando, e se, il paziente risponde alla terapia, la percezione di ogni altro stimolo, come schiaffi, ustioni, tagli, è assolutamente annullata. Queste persone, al loro procurato risveglio, raccontano di aver avvertito un’intensa sensazione tattile o termica, mai di dolore. Tali pratiche possono essere utilizzate, talvolta, in chirurgia, come alternativa alle anestesie locali.
Infine, una falsa percezione del dolore può essere prodotta dalla somministrazione di sostanze placebiche, quelle cioè prive di principi attivi, ma che vengono prescritte come se avessero proprietà curative o farmacologiche. Non è del tutto chiaro come agisca un placebo. Di certo, alcuni ricercatori, come il citato Beecher, hanno evidenziato degli ottimi risultati, ottenuti su degenti in terapia post-operatoria, con la sola assunzione di sostanze non analgesiche, come lo zucchero o il sale. Anche qui, solo suggestione.
Il dolore, d’altra parte, come la vista o l’udito, è una conoscenza percettiva, che si riferisce ad una categoria di esperienze complesse e non ad una singola sensazione prodotta da uno stimolo specifico. Esso diventa così una funzione di tutto l’individuo, compresi i suoi pensieri, i timori del momento e le speranze per il proprio futuro. Ogni essere umano ricerca continuamente il sollievo dalla sofferenza, sollievo che, dopo tutto, è uno dei traguardi universali della medicina. Molti temono più il dolore che la morte. Mai, come di questi tempi, va riaffermata una realtà troppe volte disattesa. Il sofferente è composto di anima e di corpo, di spirito e di materia, in una parola, di unità psicosomatica. Ne consegue che l’infermità, al pari della salute, lo coinvolge in entrambe queste componenti.
Ignorare, di fatto, l’elemento spirituale del malato pregiudica, quando non la cancella, la peculiare finalità della scienza medica, nel suo impegno di prevenire la malattia, ristabilire la salute, difendere la vita, contrastare la morte. Per sua stessa natura, la condizione di chi soffre sollecita impulsi e chiama a raccolta iniziative e forze che possono qualificarsi, per l’appunto, come “pastorale degli infermi”. Non dimenticando, altresì, che il pianto è una conquista esclusiva dell’essere umano ed indica la capacità, divenuta istinto, di sottolineare, con una mimica altamente espressiva, la sofferenza.
Oscar Wilde diceva: “Dov’è il Dolore, là il suolo è sacro”.