Un altro “Piano Marshall”?


Ricovery Fund (Fondo di Recupero), il termine più citato in questi giorni, il più ricorrente, il più martellante, ampiamente diffuso da giornali, media e social, ma, nel contempo, ancora ampiamente lontano dalla consapevolezza della stragrande maggioranza dei cittadini. Con l’arrivo del Covid19, l’intero Vecchio Continente ha iniziato a chiedersi come trovare uno strumento comune, capace di adottare soluzioni, condivise da tutti gli Stati, per il recupero economico del blocco creatosi con la pandemia. Non è stata un’impresa facile. Le opposizioni tra i rigidi Paesi del Nord, come l’Austria e l’Olanda, e quelli del Sud più colpiti, come l’Italia e la Spagna, sono subito emerse con prepotenza. Dopo una lunga serie di contatti, incontri e dibattiti, il Consiglio UE ha finalmente varato l’idea concreta di un piano, il Recovery Fund, finalizzato alla creazione di un fondo, in titoli comuni, di 750 miliardi di euro, da suddividere fra tutti i Paesi più colpiti (all’Italia 209), per finanziarne la ripresa, arginando l’impatto devastante del coronavirus.
Anche se calato in trame e realtà differenti, ma con obbiettivi perfettamente identici, riemerge, oggi, dalla storia quel salvifico progetto di aiuti economico-finanziari, l’European Recovery Program, mai del tutto dimenticato che, dopo gli eventi catastrofici della guerra, gli Stati Uniti d’America vollero elaborare ed attuare a favore di un’Europa devastata e che, per convenzione storiografica, divenne più noto per tutti come “Piano Marshall”.
Winston Churchill, nel settembre del 1946, all’Università di Zurigo, aveva ricordato che “[…]alcuni piccoli Paesi si stanno riprendendo, ma in vaste regioni, masse di esseri umani affamati e impauriti si aggirano tra le rovine delle proprie città e delle proprie case, esplorando un orizzonte buio, nel timore di vedere apparire qualche nuova forma di tirannia e di terrore”.
Harry Truman, 33° Presidente americano (1945-1953), era fermamente convinto che il continente europeo, diviso e distrutto dai bombardamenti, stremato dal conflitto, vittima di fame e disoccupazione, non doveva e non poteva essere lasciato solo, in un momento tanto cruciale e drammatico, tanto più che, senza una concreta e veloce ripresa economica, impoverito ed abbandonato a se stesso, sarebbe sicuramente caduto nell’orbita del sistema comunista sovietico. In uno scenario internazionale, contrassegnato dall’apertura del confronto tra Occidente e Oriente, in quella che sarebbe passata alla storia come “Guerra Fredda“, una tale prospettiva era assolutamente insopportabile per gli USA. Nel giugno 1947, Washington annunciò il varo di un piano per lo stanziamento di fondi, in aiuto agli stati europei. Fu, per facilità, deciso di collegarlo al nome dell’allora Segretario di Stato George Marshall che, durante il conflitto, come Capo di Stato Maggiore dell’Esercito statunitense, era stato tra i vittoriosi artefici della sconfitta nazista e giapponese.
Toccò proprio a lui, il 5 giugno 1947, con una prolusione tenuta presso la prestigiosa Università di Harvard, annunciare lo stanziamento di circa 14 miliardi di dollari, per risollevare l’economia europea. Disse letteralmente: “La gente delle città manca di cibo e di combustibile. I governi sono pertanto costretti ad impiegare le loro divise estere e i crediti per procurarsi questi generi di prima necessità all’estero. Questo processo esaurisce fondi, che sarebbero urgentemente richiesti dalla ricostruzione. In tal modo, si va rapidamente sviluppando una seria situazione che non fa presagire nulla di buono per il mondo. […]è del tutto logico che gli Stati Uniti debbano fare tutto quanto è possibile per favorire il ritorno di normali condizioni economiche nel mondo, senza di che non possono esservi né stabilità politica né sicurezza di pace. La nostra politica non è contraria ad un Paese o ad una dottrina, ma è contro la fame, la povertà, la disperazione e il caos. […]questo programma dovrebbe essere un programma comune, sul quale concordino, se non tutte, diverse nazioni europee. Fattore essenziale di qualsiasi azione efficace da parte degli Stati Uniti è che il popolo americano si renda conto della natura del problema e dei rimedi atti a risolverlo. La passione politica e il pregiudizio non debbono avervi alcuna parte. La volontà e la lungimiranza del nostro popolo, nell’affrontare le vaste responsabilità che la storia ha chiaramente assegnato al nostro paese, potranno e dovranno far superare le difficoltà che ho delineato”.
Il programma, quinquennale e destinato a sedici Paesi europei, prevedeva l’assegnazione di aiuti finanziari, beni e servizi che, una volta riconvertiti, avrebbero potuto rilanciare l’economia. Inizialmente gli Stati Uniti ne estesero la disponibilità anche all’Unione Sovietica, che però la rifiutò, per sé e per i propri stati satelliti. Da un’analisi di documenti dell’epoca, è chiaramente emerso che l’offerta a Mosca fu solo una mossa di facciata, lanciata con l’assoluta consapevolezza di un diniego. Era fin troppo evidente che Stalin non avrebbe mai potuto accettare un progetto, sì economico, ma che, nei fatti e nelle intenzioni, rivestiva un carattere fortemente politico ed assolutamente antisovietico.
Al termine del suo percorso, nel giugno del 1952, erano stati erogati, all’Italia, un miliardo e cinquecento milioni di dollari. Come funzionava il meccanismo? Oltre a prevedere prestiti agevolati, dei quali peraltro gli Stati Uniti non vollero mai la restituzione, il provvedimento, interamente finanziato dai cittadini americani, comprendeva l’erogazione di attrezzature industriali, prodotti alimentari e materie prime, che potevano essere destinate all’uso interno oppure vendute. Il ricavato delle vendite, sarebbe andato a costituire un fondo vincolato presso la Banca Centrale di ciascun Paese, chiamato “Fondo della Controparte”, da destinare alla ricostruzione. In Austria, ad esempio, quel “Fondo” esiste tuttora ed ogni anno eroga risorse che vengono destinate a interventi di tipo infrastrutturale. Il lancio del Piano fu largamente propagandato, attraverso la stampa, la radio ed il cinema. Uno sforzo coronato da un enorme successo, dal momento che, come si è detto, il ricordo del “Piano Marshall”, sempre vivo, torna alla ribalta ogniqualvolta si debba far fronte ad una nuova crisi internazionale. Fu anche l’involontario promotore della nascita dell’Unione Europea. Per riuscire a coordinare l’impiego degli aiuti, alcuni Paesi europei cominciarono ad interfacciarsi con sistematicità, portando, nel 1948, alla costituzione dell’Organizzazione per la Cooperazione Economica Europea, antesignano organismo sovranazionale del Vecchio Continente.
L’Italia fu tra le prime ad usufruire dell’European Recovery Program. Storiche le immagini di un Alcide De Gasperi, in visita negli USA, nel gennaio del ’47, per confermare l’impegno italiano a restare saldamente nel campo occidentale ed ottenere da Truman il proprio sostegno economico. Nella primavera di quell’anno, sia l’Italia che la Francia allontanarono dai propri governi nazionali gli esponenti dei rispettivi Partiti Comunisti, a conferma della forte valenza politica del Piano. Nel nostro Paese, la conseguente crisi dell’esecutivo, la seconda in quattro mesi, portò alla formazione del IV Governo De Gasperi, composto unicamente da democristiani, socialdemocratici, liberali e repubblicani. Con l’esclusione dei comunisti e dei socialisti, il “quadripartito”, che inaugurò la lunghissima egemonia del “centrismo” della Democrazia Cristiana, fu il necessario risultato del propizio viaggio del Premier negli USA.
La storia ha largamente dimostrato che le conseguenze del “Piano Marshall” furono benefiche e positive, sia per l’Europa che per gli Stati Uniti, con risultati significativamente palesi già dal 1948, quando le economie europee raggiunsero livelli di crescita superiori al periodo pre-bellico.
Evidentemente quei fondi furono impiegati e spesi bene. Dovrà essere così anche per il Ricovery Fund. Crediamoci!