L’8 settembre del Maresciallo Enrico Caviglia


Illustrazioni di Igor Belansky.

«Il giorno dell’armistizio con gli alleati, Caviglia potrebbe sostituire Badoglio ma il piano, concepito da una cordata politico-militare, sfuma prima di compiersi. Rimane a Roma sino al 13 settembre. Dopo la fuga del re, di Badoglio, del governo, Caviglia è la più alta carica dello stato presente nella capitale. I fatti dal suo diario personale.»

8 settembre 1943, data fatidica, per la quale lo storico Galli Della Loggia ha parlato di “Morte della Patria”. È la data dell’annuncio dell’armistizio con gli Alleati e della fine dell’alleanza militare con la Germania. La data della dissoluzione delle forze armate italiane e della cattura di centinaia di migliaia di militari, a causa della totale mancanza di precise disposizioni da parte dei Comandi militari. La data dei primi episodi di Resistenza contro i tedeschi (a Roma, a Cefalonia, a Corfù, in Corsica, nell’isola di Lero), ma anche la data della frettolosa e indecorosa fuga del Re e dei membri del governo Badoglio a Brindisi (senza un piano di emergenza e senza disposizioni ai militari), che, tuttavia, di fatto servì ad assicurare la continuità dello Stato italiano nelle regioni liberate del Sud. La data, a proposito della quale, il presidente Ciampi individuò la morte di una certa idea di Patria, quella fascista, e la nascita di un’altra, quella democratica.
Si parla dunque assai spesso dell’8 settembre 1943 e dell’armistizio. Non si sente però quasi mai citare il nome di una preminente figura di militare che ebbe un ruolo un ruolo significativo in quei giorni drammatici.
Si tratta di Enrico Caviglia, nato a Finale Ligure (SV) il 4 maggio 1862, un generale e politico italiano, maresciallo d’Italia per le imprese della Prima guerra mondiale. Era un uomo tutto d’un pezzo, obiettivo e oggi si direbbe, in controtendenza. Senatore del regno, estraneo al fascismo, fu considerato l’anti Badoglio. Il 25 luglio del 1943 sarebbe dovuto succedere a Mussolini come capo del governo e invece il re Vittorio Emanuele gli preferì Badoglio, compromesso con il fascismo e con la sconfitta in guerra. Il ritratto dell’illustratore Igor Belansky ne rappresenta l’effigie.

La sua azione, nelle fasi cruciali fra l’8 e il 14 settembre, si desume dal suo diario personale, pubblicato nel 1952 dall’editore Gherardo Casini di Roma e riproposto anni fa dall’editore Mursia di Milano. Esistono ben 21 pagine, intitolate «Capitolazione», scritte verosimilmente in Liguria dove tornò il 15 settembre, di annotazioni giorno per giorno relative agli eventi di quel periodo.
Ecco per sommi capi la testimonianza di Caviglia
«8 settembre 1943 […] Il mattino dell’8 settembre 1943 arrivai a Roma in treno per alcuni affari miei privati. […] […] il colpo di stato del 25 luglio. Fu una grave sciagura per l’Italia. Indipendentemente dal valore dubbio dell’uomo che assumeva il governo al posto di Mussolini, i cambiamenti di regime per una nazione impegnata in una lunga guerra sono sempre pericolosi. Una crisi di regime, come quella provocata da Badoglio, sconvolge l’organizzazione statale; il principio di autorità è demolito, gli istituti governativi si trovano in crisi; la loro attività cessa, oppure è disordinata e squilibrata. […] Conoscevo Badoglio, (non avevo predetto a Mussolini quindici anni prima: “Faccia attenzione, se lei avrà un momento di debolezza, Badoglio la tradirà”?) Sapevo che le cose non andavano bene, e prevedevo che presto avrebbe tagliato la corda; sentivo che il momento era vicino. perciò appena sceso alla stazione di Roma, dissi al Generale Campanari di chiedere udienza al Sovrano, per presentarmi i miei ossequi. L’udienza fu domandata. e il Re fece rispondere: “se è una cosa urgente, riceverò il maresciallo Caviglia questo pomeriggio; se non è urgente, domani mattina”. La cosa non era urgente, e l’udienza fu rimandata al 9 mattina. Alla sera dell’8, verso le 20, arrivai nella villa dei conti Miani su Monte Mario, di fronte al marabutto dove abitavo io. Ero invitato a pranzo. Mentre con la gentile e graziosa contessa, venutami incontro, mi avvicinavo al salotto, dove già era suo marito, sentivo alla radio la voce di Badoglio, che parlava di un armistizio concluso con gli anglo-americani e terminava esortando le forze armate a non attaccare più gli alleati, ma a difendersi da attacchi provenienti da altre direzioni. Il comunicato di Badoglio, riprodotto da un disco, era reticente. Infatti, si sentì, subito dopo, l’inno inglese, e la radio Londra comunicò che l’Italia aveva fatto una resa a discrezione. Altro che armistizio, questa è una vera capitolazione. […] […] Ma i tedeschi cosa faranno? […] […] Mi congedai dai miei ospiti e ragionando fra me e me su questa situazione me ne andai al mio “marabutto” e mi coricai. […] […] immagino che i mezzi per la fuga fossero già pronti. Forse ha tagliato la corda a quest’ora. L’aver fatto parlare un disco potrebbe essere un indizio. Ma il Re e il Comando supremo rimarranno al loro posto. E con questi pensieri mi addormentai. Il mattino dopo, 9 settembre, alle 9 fui chiamato al telefono dal Generale Campanari. Egli mi disse che si trovava al Quirinale, che non vi era nessuno, nemmeno la guardia, nemmeno i Carabinieri, solo i portieri. Egli mi pareva impressionato, perché sapeva che anche al Ministero della guerra e ai vari comandi non c’era nessuno. […]»
Pur non avendo incarichi e responsabilità, nella mattina del 9 settembre il vecchio maresciallo passò da un comando all’altro, per tentare di riparare i brandelli di un apparato che si stava sfaldando. Incontrò generali privi d’istruzioni aggiornate, ministri e sottosegretari abbandonati a Roma da Badoglio, ufficiali e impiegati solerti che continuavano a presidiare i loro uffici per garantire la normale amministrazione. Quando verificò che non esisteva un vertice a cui tutti potessero fare riferimento, Caviglia non indugiò a nell’impartire direttive con la naturalezza di un vecchio comandante, e tale fu considerato da tutti coloro che incontrò in quei giorni. Inoltrò pure un telegramma al re, allora in navigazione da Ortona verso Brindisi sulla motonave “Baionetta”, con cui gli chiese di essere autorizzato ad «assumere il governo», ma non ricevette riscontro. Pare che il re gli abbia risposto per il tramite della radio di un incrociatore: «V.E. è da me investito potere mantenere funzionamento governo durante temporanea assenza presidente consiglio ministri»; ma il messaggio non gli venne mai recapitato.

Il momento topico si verificò l’11 settembre, dopo i combattimenti di Porta San Paolo (raffigurati nell’altra illustrazione di Igor Belansky), quando il generale Calvi di Bergolo, comandante della Divisione Centauro, gli portò l’ultimatum con cui il generale Kesselring proclamava che avrebbe fatto saltare gli acquedotti di Roma e fatto bombardare la città da 700 aeroplani. Se Caviglia avesse accettato e ordinato alle divisioni di disperdersi, i tedeschi avrebbero lasciato agli ufficiali l’onore delle armi, occupato alcuni palazzi romani fra cui quello dell’Eiar (la Rai di allora), ma trattenuto le loro truppe al di fuori della città. Caviglia ipotizzò che gli aeroplani tedeschi sarebbero non più di 70, ma sufficienti per infliggere alla città ingentissimi danni. «Non restava — scrisse — che chinare la testa». Per conseguenza di questo atto, la capitale fu dichiarata città aperta. Nella stanza accanto lo attendevano quattro esponenti dell’antifascismo: Ivanoe Bonomi, Alessandro Casati, Meuccio Ruini, Leopoldo Piccardi. Caviglia descrisse l’ultimatum e chiese «Che cosa avreste fatto?». Tutti risposero: «Avremmo accettato» e il maresciallo disse «E così ho fatto io». Il 14 settembre annunciò ai suoi più stretti collaboratori che avrebbe lasciato Roma il giorno dopo: «Io prevedo che Hitler rimetterà Mussolini a capo dell’Italia. Se io restassi a Roma, al governo, sarei messo da parte con disdoro».
Dal 15 settembre, Tornato nella sua residenza di finale Ligure, vi morì, un mese prima della fine della Seconda guerra mondiale, il 22 marzo del 1945.