Un Imperatore senza protocollo (1a parte)


Pëtr Alekseevič Velikij, nome completo dello Zar Pietro I il Grande (1672-1725), fu una delle più straordinarie figure della storia dell’umanità. Personaggio estremamente complesso, capace di grandi generosità e di terribili crudeltà, dotato di un’intelligenza politica eccezionale, apparve, al finire del XVII Secolo, sullo sfondo di una Russia ancora medievale che, durante il suo regno, egli trasformò in una delle più temibili potenze mondiali, usando il suo illimitato potere di despota orientale e cancellando di netto, il vecchio mondo dei boiari. Viaggiò, in incognito, in tutta Europa, per apprendere le idee occidentali, sperimentando, come semplice operaio, le tecniche moderne nei cantieri navali olandesi o frequentando le lezioni dei maggiori scienziati del tempo.
Eliminò spietatamente l’infido corpo militare degli Strelzi, una sorta di Guardia Reale al Cremlino che, piuttosto facili alla corruzione, vengono dagli storici paragonati ai Pretoriani romani ed ai Giannizzeri ottomani. Creò un esercito ed una marina invincibili, fondò scuole, fabbriche, ospedali, musei, organizzazioni assistenziali. Ebbe la forza, e soprattutto il coraggio, di abbandonare l’antica capitale, Mosca, troppo lontana dal cuore europeo, per farne sorgere dal nulla, a prezzo di enormi sforzi, una nuova, San Pietroburgo, stendendo personalmente i piani e chiamando architetti italiani per realizzarli. E lì iniziò una nuova vita, che fu strana, inverosimile, anacronistica, misteriosa, umana.
Pietro poteva “sbrigare più faccende in una mattina, che un intero stuolo di senatori in un mese”, commentò, una volta, un diplomatico straniero. Anche d’inverno, quando il sole a San Pietroburgo non si levava prima delle nove, si svegliava alle quattro e, con addosso ancora il berretto da notte, leggeva i rapporti o conferiva con i suoi ministri. Dopo una colazione leggera, si recava all’Ammiragliato, vi lavorava per un’ora almeno e poi correva al Senato. Tornava a casa, alle dieci del mattino, per cimentarsi al tornio, prima del pasto delle undici. Dopo pranzo, riposava per un paio d’ore (a questo non rinunciava mai), ovunque fosse. Alle quindici faceva un giro per la città o si chiudeva nel suo ufficio con Makarov, il segretario privato. Portava sempre un taccuino in tasca, per annotare le innumerevoli idee che, instancabilmente, partoriva durante il giorno. Altrimenti, le appuntava su di un pezzo di carta qualsiasi. La sera visitava gli amici o partecipava ad una delle assemblee pubbliche, da lui istituite dopo il ritorno dalla Francia. Naturalmente il programma poteva variare. Non stava quasi mai in casa; altre volte non usciva affatto, come avvenne nell’inverno del 1720, quando si dedicò, per quindici ore al giorno, alla stesura delle nuove “Regole Nautiche”.
Pietro godeva di un appetito da marinaio. Preferiva i cibi semplici a quelli sfarzosi. Amava la zuppa di cavolo, lo stufato, il maiale con la salsa di panna acida, l’arrosto freddo con i cetrioli sottaceto o i limoni sotto sale, le lamprede di fiume, il prosciutto e le verdure. Al dessert evitava i dolci. Mangiava frutta e formaggio, con una particolare predilezione per quello di Limburgo; mai pesce di mare, convinto che non gli facesse bene. Nei giorni di digiuno, si nutriva di pane integrale e frutta. Prima di sedersi a tavola, beveva un po’ di anisetta annacquata e prima di alzarsi degustava del “kvas” (bevanda tipica dell’Est Europa) o del vino ungherese. Quando era fuori, un attendente non doveva mai dimenticare di portare con sé il suo cucchiaio di legno, montato in avorio, il coltello e la forchetta con l’impugnatura di osso, poiché Pietro non usava mai posate che non fossero le sue. Lo Zar e la Zarina Caterina pranzavano quasi sempre da soli, serviti da un giovane paggio e da una damigella d’onore. Se c’erano invitati, non dovevano essere più di quattordici. Quando lui e l’imperatrice si erano accomodati, era solito dire: “Signori, prendete posto per quanto la tavola ve lo consente. Gli altri vadano a casa e mangino con le loro mogli”. Il suo cuoco era un sassone, di nome Johann Velten, venuto in Russia al seguito di un ambasciatore danese. Pietro assaggiò la sua cucina nel 1704 e persuase Velten a rimanere, anche perché era allegro e vivace. Gli era enormemente affezionato, nonostante lo punisse spesso. Una volta, dopo aver mangiato un pezzo di formaggio che trovò particolarmente gustoso, tirò fuori il compasso, misurò quanto ne rimaneva e prese nota. Chiamò Velten e gli disse: “Mettilo da parte, senza farlo assaggiare a nessuno, perché lo voglio finire io”. Il giorno dopo, quando il cacio fu riportato in tavola, sembrava molto più piccolo. Prese di nuovo il compasso e si accorse che era notevolmente diminuito. Fece vedere al cuoco la differenza, lo bastonò, poi sedette e finì il formaggio con una bottiglia di vino.
Non amava la pompa. Viveva semplicemente e frugalmente. Preferiva vestiti vecchi, scarpe e stivali largamente usati e calze più volte rammendate, dalla moglie e dalle figlie. Raramente indossava la parrucca. D’estate non portava copricapi. Nei mesi più freddi, calzava il nero cappello a tre punte del Reggimento Proebraženskij ed un vecchio pastrano, nelle cui tasche infilava documenti di stato ed altre carte. All’incoronazione, come co-regnante, di Caterina I, il 18 maggio 1724, per farle piacere, indossò un cappotto, da lei stessa ricamato, con decorazioni d’oro e argento, protestando, comunque, che il denaro lì speso avrebbe potuto essere destinato a miglior uso, per vestire i suoi soldati, ad esempio. Secondo lui, la magnificenza e lo sfarzo non avevano nulla a che vedere con la grandezza. Rammentava sempre la semplicità dei palazzi reali d’Inghilterra e d’Olanda, esaltando la modestia di Guglielmo III d’Orange, sovrano congiunto di quelle due nazioni che, sicuramente, erano le più ricche d’Europa. Neppure l’adulazione faceva presa su di lui. Non osservava il protocollo. Odiava i lunghi pranzi ufficiali. “Tali occasioni”, diceva, “sono state inventate per punire i grandi ed i ricchi dei loro peccati”. Ai banchetti, cedeva abitualmente il proprio posto al Principe Fyodor Yuryevich Romodanovsky, suo braccio destro o al Generale Aleksandr Danilovič Menšikov, suo confidente. Preferiva sedersi al limite della tavola, così da poter scappare alla prima occasione.
Girava per le strade con un piccolo carro aperto, che poteva ospitare solo due passeggeri. Uno straniero, una volta dichiarò che nessun mercante rispettabile di Mosca si sarebbe mai degnato di mettere piede in un veicolo così misero. D’inverno usava uno slittino ad un solo cavallo, accompagnato da un unico attendente. Pietro preferiva muoversi a piedi, per poter vedere di più e fermarsi a guardare meglio. Parlava con tutti quelli che incontrava.
La sua abitudine di camminare senza scorta, tra la gente, era sicuramente molto azzardata. C’erano sufficienti motivi perché cadesse vittima di un assassino: in molti lo consideravano un anticristo. Sfuggì, infatti, a più di un attentato.
Non aveva paura dei criminali, ma il terrore paranoico degli scarafaggi. Quando era in viaggio, non entrava in nessuna dimora, se non dopo una perentoria assicurazione della totale loro assenza. Una volta, giunto in una casa per trascorrervi la notte, chiese all’anfitrione se lì ve ne fossero e questi gli rispose, indicandone uno che, infilzato nel muro da uno spillo, ancora si dibatteva: “Non molti Maestà!”. Pietro, lanciando un urlo quasi disumano, assestò un gran cazzotto all’uomo e si precipitò all’esterno.
Il temperamento impulsivo e l’abitudine di ristabilire la disciplina, fra i subordinati, a bastonate o a pugni, non lo lasciarono mai.