Il politico conservatore – Questa non è democrazia, dal 1946 a Palamara


Sergio Bevilacqua

Nel 1946 nasce la Repubblica Italiana e nel 1947 si dà una Costituzione, in buona parte filosofica e in altra parte inattuata. La pratica perversa di oltre 40 anni di democrazia claudicante grava, sostenuta soprattutto dai vecchi partiti, sulla società italiana e sugli italiani (anche per motivi strategici) fino al cessare della “guerra fredda” con il crollo dell’impero sovietico, costruito e difeso con i carrarmati da Stalin e successori, e del suo socialismo reale.
Si trova un momentaneo sollievo con una profonda revisione organizzativa del funzionamento dello Stato e delle sue Amministrazioni Pubbliche, grazie a un articolato e delicato sistema di leggi: dalla L. 142/89, passando per la L.241/90, la L. 81/92 con la “spallata” della L.D. 421 del 92, con i conseguenti decreti delegati 502/92 per la sanità, 29/93, 77/95, oltre ad altre leggi che portano al testo unico del 2000. Soltanto nel 2000, quindi, dopo oltre 50 anni di cosiddetta democrazia, lo Stato Italiano acquisisce un corpus normativo di diritto amministrativo che potrebbe consentire funzionamenti analoghi al modello democratico praticato in tutti i Paesi dell’Occidente evoluto.
L’iter della revisione (1989-2000) è stato lunghissimo, ma i contenuti espressi dal corpus normativo vengono poi ancora disattesi nei fatti e gli istituti principali, espressione di esigenze di funzionamento organizzativo ben presenti in tutte le democrazie mature e funzionanti da oltre un secolo altrove, ancora ostacolati con astuzia da interessi particolaristici: i poteri deviati non intendono legittimarsi con un quadro istituzionale non contraddittorio, preferiscono uno Stato leso nelle sue funzioni essenziali.
Per l’Italia è già troppo tardi. Infatti, il laborioso e corretto iter della riforma incontra resistenze incancrenite, in un Paese ove le professioni, l’imprenditoria, i sindacati, i partiti, le diverse amministrazioni e all’interno le singole funzioni direttive sono abituati a fare i fatti loro, usando leggi esistenti in contraddizione tra esse, con il buon senso e con il Paese reale, per conservare i loro privilegi particolaristici. Le istituzioni non sono abbastanza solide e organizzate per dare un ventre a questi organi della società italiana, e gli organi proseguono a far gli affari propri a scapito dell’organismo e del Popolo italiano.
La magistratura, in democrazia espressione della necessariamente autonoma funzione giudiziaria, accanto agli altrettanto autonomi potere legislativo ed esecutivo, vive fino agli anni ‘90 una condizione da salvagente democratico: fino a Mani Pulite, i due altri poteri la temono e il dibattito sulla politicizzazione dei magistrati (invasione dei soggetti alla base di un potere, quello legislativo, sul giudiziario) ha toni tecnici e dottrinali, ma non mostra ancora segni di gravissimo inquinamento. La presenza nel quadro politico di padri costituenti (pur con dubbi: mater certa…) non porta ancora la crisi democratica fino alla sua malattia mortale, la contaminazione tra i diversi poteri separati, fino a quello giudiziario.
Con Mani Pulite, la magistratura italiana, in ritardo di maturità rispetto alle funzioni efficienti degli altri Paesi democratici a causa dell’ambiente malsano suddetto, compie uno sforzo che la obbliga a uno schieramento politico. Di Pietro è il caso emblematico di questo lavoro: si schiera, poi perde la bussola e si trasforma in sintomo a sua volta.
Il corpo della magistratura, estenuato dal trainare la democrazia italiana verso obiettivi più cristallini su un terreno non suo, è sfibrato e barcolla. Adottato il principio del coinvolgimento politico di fatto, la magistratura, anziché risanare lo Stato malato, viene colpita in modo più grave che mai dalla stessa malattia: è gravemente contagiata.
La corruzione dei magistrati diventa argomento di pubblico dominio nell’epoca Berlusconi, ove viene agita con grande astuzia, nel silenzio curioso e interessato delle altre forze politiche, che imparano dal Cavaliere non a temere i magistrati (e la giustizia…), come facevano i politici della cosiddetta Prima Repubblica, ma a manovrarli e corromperli, oltre a mettere a disposizione dei giudici norme palesemente create dai potenti del legislativo per l’interesse privato e non per il bene comune.
Il PD impara quanto sopra, che ben attecchisce sui fossili della vecchia ideologia della dittatura del proletariato con l’identità popolo-partito-Stato: coerentemente, costruisce uno Stato-nello-Stato, razionale e indirizzato ai suoi obiettivi politici di gruppo dirigente e non più di popolo, un cosiddetto Deep-State, che inverte il funzionamento delle Amministrazioni Pubbliche da servizio al Popolo Italiano a espressione di un gruppo politico, oltretutto con interessi ramificati e impropri.
Questa è la putrida acqua di coltura ove nasce il caso Palamara-Mescolini, forse l’ultimo elemento di crisi istituzionale della cosiddetta democrazia italiana. In estrema sintesi storica e istituzionale, è forse il più grave e definitivo dei numerosi fatti che documentano perché questa italiana non è democrazia. Il che non vuol dire necessariamente bene o male (facile capire se è l’uno o l’altro…), ma sicuramente arretratezza istituzionale, civile, culturale e pratica.
Che Dio ci aiuti. Impossibile a uomini liberi e lucidi vivere in questa Italia: e non ce ne sono state altre, ancora. Speranza, ultima a morire…