Europa, Resistenza e autentico senso del ricordo nel passaggio epocale che stiamo vivendo


Nota redazionale: Le illustrazioni che corredano l’articolo sono di Igor Belansky.
In questo mese di maggio 2020, oltre all’inizio della Fase 2 della pandemia da Covid 19, ricorrono date importanti, veri e propri pilastri sui quali largamente è stata costruita l’attuale geopolitica. Antonio Rossello, maggio ‘20 La pandemia di coronavirus che stiamo ancora affrontando e che ha portato con sé, oltre a un doloroso carico di vittime, anche problemi economici e sociali, a ben guardare ha contribuito anche a riscoprire quegli aspetti della vita cui prima si dava poca importanza. E le piccole comunità, paradossalmente, hanno tratto giovamento dal lock down, rinsaldando quel senso di unione che le contraddistingueva, già da prima dell’arrivo dell’epidemia. Dalla paura generalizzata, acuita è vero da un certo terrorismo mediatico, si sono sviluppate manifestazioni di solidarietà e cenni di responsabilizzazione collettiva nei comportamenti che, pure su una più ampia scala, potrebbero essere il timido preludio di un inaspettato, quanto rinnovato, senso comunitario. Espressioni tutte auspicabili che dovrebbero forse essere ripensate nell’accezione dell’instaurazione di un vero spirito unitario nazionale. Vi è un’ulteriore considerazione che rischia di essere ancora più pregnante nella drammaticità della situazione attuale. Questa emergenza sanitaria planetaria sta avendo un effetto tale che al suo termine certamente ogni paese disporrà di nuove vittime da commemorare e di nuovi eroi (veri o falsi!) da celebrare. È un aspetto che inesorabilmente si va consolidando da qualche mese, ossia da quando le corsie delle rianimazioni e di alcuni reparti di terapia intensiva, sub intensiva e di malattie infettive, si sono affollati di pazienti contagiati dal Covid-19. Da quando è evidente l’operato di medici ed infermieri per salvare la vita alla gente, con sacrificio e abnegazione. Da quando si assiste ad un aggiornamento quotidiano dei medici e sanitari morti sul campo, è comparsa una nuova categoria di eroi, quella sanitaria. E così ci sono pure nuovi caduti: chi, sanitario o meno, è stato sopraffatto dalla terribile malattia. E quindi sono emerse deficienze, anomalie e contraddizioni di un sistema. i medici e gli infermieri, indispensabili al funzionamento della sanità (sebbene vi siano stati alcuni ad aver in passato ritenuto il contrario), a volte bistrattati, ignorati, umiliati, sfruttati, malpagati, denunciati, riescono soltanto in questo pandemonio ad ottenere un cenno di considerazione! Pertanto, già durante i giorni più oscuri di questa pandemia, sono stati organizzati flash mob dai balconi per sostenere i nuovi valorosi. Il presidente della Repubblica li ha pubblicamente elogiati, così come il Papa li ha ringraziati ed ha pregato per loro, ancora nuovamente il 12 maggio, il giorno internazionale degli infermieri. Ecco gli elementi su cui si basa l’attuale interesse pubblico, il quale a sua volta è rafforzato dal delinearsi di un nuovo immaginario. Un immaginario quotidianamente alimentato dai telegiornali, dove vengono trasmesse scene di operatori sanitari che, in tutto il territorio nazionale e nel mondo, in particolare nelle aree più colpite, in carenza di mezzi e protezioni, assistono centinaia, migliaia, di pazienti critici. Media da cui prorompono i dati inerenti i numeri del contagio, quasi un diuturno bollettino di guerra. Notizie vere o false, speranze accese e poi smorzate, di un mondo in corsa contro il tempo per trovare cure e vaccini. Immagini macabre di fosse comuni e di colonne di camion militari che trasportano bare. Scene mutate di vita quotidiana, di desolazione e panico per una crisi socioeconomica senza precedenti. Una sommatoria esorbitante di fattori che avrà quasi di sicuro l’effetto di far cadere nel dimenticatoio, nell’ipotesi peggiore, o di far diventare storia da cui imparare criticamente, nell’ipotesi migliore, importanti stagioni del passato. Generazione per generazione, è già successo per il 4 novembre, il Risorgimento e a ritroso per fatti, anche tragici, che hanno segnato i secoli precedenti. Sarà questa la volta, per gli attuali giovani, dell’oblio delle situazioni e vicende che hanno dominato la scena del secondo conflitto mondiale e del successivo dopoguerra? Con i relativi protagonisti, principali e secondari, taluni dei quali colpirono profondamente l’immaginario culturale di un’epoca che aveva anche bisogno di eroi e di titani e che si appropriava di loro spesso a fini propagandistici. Alcune tavole dell’illustratore Igor Belansky accompagnano il testo e rievocano alcune figure, magari poco note ma per questo non meno emblematiche, che hanno contrassegnato quel periodo storico. Figura 1 – Claus Schenk Von Stauffenberg, un militare tedesco che svolse un ruolo di primo piano nella progettazione e successiva esecuzione dell’attentato del 20 luglio 1944 contro Adolf Hitler, e nel successivo tentativo di colpo di stato. Sarebbe drammatico se oggi, più di 70 anni dopo, quando l’Europa si trova a fronteggiare un altro dramma epocale, proprio il peggiore dopo la Seconda guerra mondiale, l’epidemia di Coronavirus e la crisi economica e sociale da essa innescata, cadesse un banalmente considerato fisiologico silenzio su avvenimenti fondanti la nostra più recente storia. Ebbene, in questo mese di maggio ricorrono due date importanti, veri e propri pilastri sui quali largamente è stata costruita l’attuale geopolitica. La prima di esse: l’8 maggio 1945. Di fatto nell’Unione europea la pace è durata, per 75 anni, da questa giornata, in cui, a Reims, la Germania si arrese al cospetto delle truppe alleate. L’atto formale che pose fine alla Seconda guerra mondiale in Europa. Non passò molto affinché le nazioni europee stremate cercassero di risollevarsi dalle conseguenze devastanti di quel conflitto e fossero determinate a impedire che una guerra di quelle proporzioni potesse riesplodere. Questo spinse alcuni governi europei a mettere in comune gli interessi economici, per migliorare la qualità della vita ma, soprattutto, per gettare le basi per un’Europa unita, nella quale una nuova guerra non fosse più possibile. Ecco l’origine della seconda data importante: il 9 maggio 1950. Quando il Ministro degli Esteri francese Robert Schuman propose la creazione della CECA, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, i cui membri fondatori – Francia, Repubblica federale di Germana, Italia, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo – avrebbero messo in comune quelle produzioni. Essa è stata la prima di una serie di istituzioni sovranazionali che avrebbero condotto alla nascita dell’Unione europea. “In questi due giorni passati ci sono state due commemorazioni: il 70esimo della dichiarazione di Robert Schuman che ha dato inizio all’Unione Europea e anche la commemorazione della fine della guerra. Chiediamo al Signore per l’Europa oggi, che cresca unita: questa unità di fratellanza che fa crescere tutti i popoli, nell’unità, nella diversità”. Parole tonanti che ha profferito papa Francesco, all’inizio della celebrazione della messa del mattino a Casa Santa Marta. Figura 2 – Il comandante partigiano autonomo magg. Enrico Martini Mauri, uno dei personaggi che testimoniano l’anima non comunista della Resistenza Un monito evidente nel mezzo di questa inimmaginabile emergenza, alla quale nessuno Stato può illudersi di sfuggire chiudendosi nei propri confini. Una risposta europea, almeno in una prima fase, è parsa evanescente, non ha manifestato unità e coesione, allorquando gli Stati membri hanno marciato “in ordine sparso”. Anche alcuni dei fondamenti della nostra Europa sono apparsi vacillare, a cominciare dalla libera circolazione delle persone, con restrizioni mai viste; ma ciò si è verificato persino all’interno degli stessi confini nazionali, laddove si sono dovute adottare misure straordinarie per impedire non alle persone ma al virus di circolare. Non sono mancate altre preoccupazioni. Il rischio è che, di fronte a tendenze sovraniste, agli egoismi di singoli Stati (come taluni del Nord Europa), a rinascenti nazionalismi, ai quali potrebbe contribuire a dar voce persino la sentenza della Corte costituzionale tedesca del 5 maggio scorso, possa esaurirsi quello spirito di solidarietà il quale, richiamato già nella Dichiarazione Schuman e declinato in molteplici varianti e materie, rende intriso di sé l’intera costruzione europea e ne rappresenta la più autentica e profonda ragion d’essere. Per onor del vero, segnali bene auguranti, che si erano già riscontrati nella ricomposizione, almeno teorica, dell’acceso dibattito fra i paesi coinvolti nell’adozione di provvedimenti straordinari comuni in materia economica e finanziaria a livello europeo, sono stati ulteriormente testimoniati dall’atto importante con il quale proprio la Germania ha festeggiato la fine della Seconda guerra mondiale. Non era mai accaduto prima, ma non è stata una fatalità. A chi è più anziano ha fatto certamente effetto vedere i tedeschi commemorare addirittura la capitolazione della Germania alle potenze alleate. Ma si trattava ovviamente di un’altra Germania, oggi democraticamente governata, a fermarsi, soltanto nella capitale Berlino, con una sobria cerimonia ufficiale, a ricordare la resa incondizionata della Wehrmacht, l’8 maggio del 1945, che decretò la liberazione dal nazionalsocialismo in un Paese finito in ginocchio. Di sicuro, grande è stato il portato simbolico di questo gesto, nel momento in cui la storia sembra passata davvero, a 75 anni dalla fine della II Guerra mondiale. Nel presente di un’Europa che si è repentinamente ritrovata più unita sotto lo tsunami dell’epidemia da Covid-19, ma che poi vacilla su tempi e modi di una cooperazione finanziaria incompiuta. Viviamo effettivamente un passaggio epocale, cominciamo davvero ad affrontiamo insieme le difficoltà? Anche e soprattutto in questo clima incerto, l’unità di intenti e l’unione delle forze ci permetterà di tornare a considerare secondo una prospettiva scevra da rancori e condizionamenti pagine oggi determinati del nostro passato? Ormai il velo dell’ombra è squarciato, mentre la Seconda guerra mondiale, con i suoi regimi totalitari e i suoi orrori, aleggia nel ricordo dei pochi che l’hanno vissuta (in qualunque modo), c’è una restante parte dell’umanità che non deve dimenticare. Un ricordo che tuttavia dovrebbe essere stornato da evidenti vizi di forma persistenti dal punto di vista storico, almeno qui in Italia. Occorre in tal senso richiamare l’attenzione su ciò che in più di mezzo secolo hanno comportato differenti concezioni di Resistenza e di memorialistica. Durante il secondo conflitto mondiale in tutta Europa si è assistito al sorgere spontaneo di forme di Resistenza all’invasione tedesca e ai regimi che la appoggiavano. Fenomeni, già dal primo dopoguerra, generalmente analizzati e ricordati con un giusto equilibrio nella gran parte dei paesi del vecchio Continente. Ora anche a Berlino, persino nel cuore di quella che fu la Germania nazista poi spartita dalle forze vincitrici. Soltanto nella nostra Penisola si è osservata la strumentale sopravvivenza per oltre 70 anni di un «progetto politico» di Resistenza permanente contro i pericoli di fascismi sempre paventati, e individuati anche in forme e circostanze assai improbabili. Questa anomalia nazionale è stata originata dalla presenza e dall’azione di quello che fu il più importante Partito comunista dell’occidente. Un’organizzazione assai strutturata e radicata per la quale l’impossibilità di conquistare il potere per quanto prestabilito dagli accordi internazionali si traduceva nella determinazione di mantenere viva la pressione sul governo italiano, in virtù del proprio apparato militare costituito da ex partigiani. Tutto questo aveva lo scopo di contribuire alla formazione di un «significato comune e condiviso» di Resistenza valido per tutti gli italiani? Certamente no, soprattutto perché la Resistenza ebbe diverse componenti e anime. Il mito della Resistenza ha di conseguenza avuto molteplici forme e stagioni: si potrebbe ragionevolmente parlare di miti della Resistenza. Infatti, è del tutto naturale che un mito variamente declinato della Resistenza, come già avvenne per il Risorgimento, si sia spontaneamente originato e sia cresciuto nel ricordo e nella coscienza dei tanti e diversi uomini che parteciparono direttamente o indirettamente a esperienze così intense, come quelle della lotta armata o del rifiuto a collaborare con tedeschi e fascisti loro alleati, rifiuto pagato con la dura esperienza dei campi di concentramento. Vi sono stati purtroppo alcuni, che attraverso la loro comune e ferrea subordinazione allo scopo, hanno propugnato la totalità dell’ideale resistenziale. Di fatto un falso denominatore. Figura 3 Ufficiale italiano dell’Esercito del Sud (1944), le Forze italiane che a fianco degli Alleati liberarono la Penisola Essa si è tradotta nella ripetizione di proclami e slogan creati, ad arte e a senso unico, per ogni stagione. Anche perché, arrogandosi tuttora diritti ingiustificati di rappresentanza esclusiva, il «Mito della Resistenza», per gli eredi di una simile operazione, continua ad essere oggi uno strumento di lotta politica, a tratti bieco e protervo nella sua intolleranza. Si evidenziano, infatti, gravi sintomi nel funzionamento di componenti che invece dovrebbero liberarsi delle scorie di un passato stalinista, in ossequio della verità democratica e della delibera del Parlamento Europeo di settembre 2019 sull’abiura di tutti i totalitarismi. Un atto con il quale si sottolinea chiaramente che la Seconda guerra mondiale è iniziata come conseguenza immediata del famigerato trattato di non aggressione nazi-sovietico del 23 agosto 1939, noto anche come patto Molotov-Ribbentrop, e dei suoi protocolli segreti. Che afferma che sia i gulag sovietici che i lager nazisti gridano vendetta, (im)pongono domande angoscianti sull’essere umano e sulla sua possibilità di infliggere umiliazione e sofferenza ai suoi simili, come togliere loro un grado di umanità dopo l’altro, sino a renderli “non più umani”. E dunque eliminabili con una certa facilità. Della contraddizione italiana, per le ragioni sopra esposte, il caso emblematico sono le diverse connotazioni assunte negli anni dalla Festa della Liberazione. C’era una volta la stagione dell’apoteosi comunista, sostituita dopo il crollo del muro di Berlino con un più sobrio e solenne ritorno alla classicità condivisa dell’era della presidenza della Repubblica di Carlo Azeglio Ciampi. Nell’ultimo ventennio abbiamo assistito a una deriva psichedelica ad opera di organizzazioni che anagraficamente sempre meno hanno rappresentato la matrice di chi realmente partecipò alle vicende commemorate. Il 25 aprile dei sindacati, quello degli immigrati, quello antiberlusconi, quello anti-sovranista, poi la surreale assimilazione con il movimento delle Sardine. Fino al paradosso supremo delle afferenze con il mondo LGBT. Via via quest’anno, tra patetici canti di Bella Ciao dal balcone, si sono stagliate all’orizzonte le brigate covid-19. Un totale snaturamento. Cenni di ostentazione e fanatismo. Mistificazioni palesi operate nei confronti di persone a cui, con forme di comunicazione adeguate ai tempi attuali, andrebbe soltanto proposto di valutare con serena obiettività la Resistenza, quale fattore significativo per l’Italia in un momento drammatico di una guerra distruttiva e ingiusta. Il mito da cui dovremmo partire, per superarlo, è di altro ordine; non riguarda il vissuto dei resistenti ma il richiamo alla Resistenza come scelta politica di nuova classe dirigente. Il richiamo alla Resistenza che è servito negli anni della ricostruzione democratica, che ha avuto e può ancora avere un notevole peso. Un terreno sul quale si possono ritrovare alcuni elementi etici di permanente validità e che per ognuno fanno della Resistenza un punto di riferimento sicuro.