Più l’uomo che l’eroe


Non bello, nel senso più comune della parola, alto un metro e sessantasei, gambe leggermente arcuate, petto e braccia possenti. La testa, tenuta sempre alta, grossa e ben modellata, coperta da folti capelli alla nazarena. Il volto, quasi interamente nascosto da una barba intera di colore rosso, alla quale il sole dava il riflesso della criniera di un leone e due occhi azzurri che rivelavano tutta l’eccitazione del suo animo. A questo singolare aspetto, la natura aveva aggiunto l’agilità e la forza, non quella muscolare dell’atleta, ma quella particolare, nervosa che rendeva capace il suo corpo delle più ardue prove e delle più rischiose “ginnastiche”. Con la stessa naturalezza con cui nuotava, riusciva a cavalcare, saltare, arrampicarsi, tirare di carabina, di sciabola, all’occorrenza di pugnale, senza che nessuno glielo avesse mai insegnato, da semplice autodidatta. Sapeva catturare la simpatia degli altri con una voce impostata, ammaliante ed una conversazione fresca, movimentata, piena di amabile semplicità, come la sua natura, e penetrata da un soffio poetico.
Nel 1807, quando Giuseppe Garibaldi vi nacque il 4 luglio, Nizza era un’addormentata e tormentata cittadina, da secoli dominio dei Duchi di Savoia, che alla caduta di Napoleone Bonaparte, nel 1814, festeggiò il suo ritorno all’antica dinastia del Regno di Sardegna e al suo Re, Vittorio Emanuele I. La famiglia era orgogliosamente ligure, lui orgogliosamente italiano.
Domenico, il padre, capitano marittimo, proprietario di una tartana, la “Santa Reparata”, con la quale esercitava, non sempre aiutato dalla fortuna, il cabotaggio nel Mediterraneo, Maria Rosa Raimondo, la madre, ed i suoi tre fratelli, Angelo, Michele e Felice (tutti maschi poiché le due femmine, Maria Elisabetta e Teresa, erano morte in tenerissima età) godevano di una certa agiatezza, che proveniva dal mare. La vita li separò tutti molto presto, ma furono sempre legatissimi e si tennero, epistolarmente, in continuo contatto.
Una cultura, non sistematica, Giuseppe se la formò da sé, secondo le necessità e le inclinazioni, con scelte personali. Entrato in marina mercantile nel 1821, leggeva molto, nelle ore vuote delle lunghe navigazioni e nei momenti di solitudine. Approfondì varie discipline, tanto che in circostanze difficili, poté vivere dando lezioni private. Amò la poesia e la letteratura. Conosceva a memoria i “Sepolcri” di Ugo Foscolo e le composizioni di Giovanni Berchet. Era attratto dagli storici greci e romani, amando, altresì, i romanzi ricchi di amor di patria e di aneliti alla giustizia sociale, come quelli di Victor Hugo e di Francesco Domenico Guerrazzi.
Inizialmente fu un uomo di mare come tanti altri. Navigando sulle rotte commerciali, toccando i porti di tutti i continenti, venne a contatto diretto con esponenti dell’ambiente settario sia europeo che italiano. L’indipendenza dallo straniero, l’unità nazionale e la repubblica dovevano rappresentare, per lui, le mete che l’Italia doveva proporsi, chiamata da Dio ad avviare la pacifica convivenza dei popoli, in Europa e fuori di essa. Dall’esistenza di Dio, ricavò la legge del progresso, che si realizzava attraverso l’opera delle nazioni. La “Giovane Italia” di Mazzini divenne il centro del suo pensiero social-filosofico. Cominciò proprio da lì l’epopea garibaldina, quella che tutti conoscono, quella che avrebbe trasformato il semplice marinaio nell’Eroe per antonomasia.
Sempre in condizioni di inferiorità, dal 1848 al 1867, combatté, in Italia, sette campagne, contro austriaci, Borboni e francesi, gli stessi che nel 1870 soccorse nella guerra contro la Prussia.
Fu astuto e creativo. In Brasile trasportò delle navi via terra, scavalcando colline. Nel 1860 beffò le truppe borboniche fingendo di ritirarsi e piombando su Palermo. Governi e parlamenti, anche internazionali, si occuparono di lui. Cronisti, disegnatori e fotografi lo seguirono sui campi di battaglia. La sua fama fu tale che nel 1861, all’inizio della guerra di Secessione americana, il Presidente Abramo Lincoln gli offrì il comando di un Corpo d’Armata nordista. Nel mondo, ognuno si chiedeva ogni giorno: “Che ha fatto Garibaldi?” o “Che sta per fare Garibaldi?”. Nel 1863, su invito del Primo Ministro britannico Lord Henry John Temple, 3° Visconte di Palmerston, giunse a Londra acclamato da mezzo milione di persone.
Fu, inizialmente con la sua amatissima Anita (1821-1849), l’uomo del Rio Grande do Sul, di Montevideo, della Spedizione dei Mille. Ispirò la penna di scrittori come Alessandro Dumas, ideatore de “I tre Moschettieri”, amico fraterno per tutta una vita, e di Giosuè Carducci che, nel discorso in suffragio alla sua morte, disse: “…..tanto dolore colpisce la Patria e me, quando io ho qui sempre dinanzi agli occhi della mente e quasi a quelli del corpo, il cadavere dell’uomo che ho più adorato tra i vivi…..Giuseppe Garibaldi giace sotto il fato supremo. E il sole risplende intanto sulle Alpi italiane che non sono più nostre, sul mare che non è più il mare nostro”.
Era rientrato a Caprera, dalla “sua” Sicilia, nell’aprile del 1882, con quell’ultimo viaggio che avrebbe chiuso la sua vita politica, già malconcio e sofferente. Il 2 giugno portò preoccupazione ai suoi cari e tristi presagi. Chiese di stare all’aria aperta e bere solo bevande fredde. La bronchite andava peggiorando, il catarro rendeva il respiro affannoso e difficile. Per tre giorni, una paralisi faringea non gli aveva permesso di assumere nemmeno una goccia d’acqua, tanto da dover essere alimentato artificialmente. Quella mattina volle ostinatamente prendere un bagno tiepido, anche contro il parere dal medico e dei familiari. Gli furono applicati dei suffumigi per liberare la gola.
Verso mezzogiorno, la vita gli andò gradatamente mancando. Era sereno. Disteso nel letto, vide posarsi sul davanzale della sua finestra una coppia di capinere e pensò alle due figlie morte. Non volle che fossero scacciate. Assistito da Dottor Alessandro Cappelletti, medico di bordo della nave da guerra “Cariddi”, alla fonda nel porto della Maddalena, con l’inerte mano stretta da quella del figlio Menotti, il primo ad essere informato del suo peggioramento (gli altri arrivarono troppo tardi), alle sei e ventidue del pomeriggio si spense.
La notizia venne diffusa dal telegrafo ed apparve sulle prime pagine di tutti i giornali la mattina seguente. Il cordoglio, immenso, fu immediato. A Roma, la Camera dei Deputati lo commemorò commossa e deliberò il lutto per due mesi. Messaggi di condoglianze giunsero da ogni parte della terra, anche dall’India. “Garibaldi appartiene all’Italia e del pari, ai popoli che hanno lottato per la loro ricostituzione nazionale”, telegrafò il presidente del Parlamento rumeno. A Parigi, a Londra, a Montevideo, dove veniva chiamato “Heroe de ambos mundos”, a Washington, ovunque, vennero promosse manifestazioni pubbliche.
Nel testamento, dispose di voler essere (lett.) “cremato, in una bara scoperta, con dentro gli avanzi adorni della camicia rossa. Un pugno di cenere sarà conservato in un’urna qualunque e questa dovrà essere posta nel sepolcreto che conserva le ceneri delle mie bimbe, Rosa e Anita”.
La tomba dell’Eroe è rimasta dove fu collocata nel 1882. Le ripetute proposte di trasferimento nella Capitale non ebbero mai seguito. Nel 1932, in occasione 50° Anniversario della morte del Generale, sul Gianicolo fu trasferita e tumulata la salma della moglie Anita.
“E’ un uomo, nient’altro. Ma un uomo in tutta l’accezione sublime del termine. Uomo della libertà, uomo dell’umanità. Vir, direbbe il suo compatriota Virgilio”, scrisse di lui Victor Hugo.
La rivista tedesca “Deutsche Zeitung” invocò un nuovo Omero “per cantare dignitosamente l’Odissea di questa vita”.
Questa vita fu quella dell’Eroe dei Due Mondi.

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Un grazie a Igor Belansky per aver accompagnato il mio scritto con i significativi tratti dei sui disegni.