La spesa ai tempi del coronavirus


Dopo 4 settimane di arresti domiciliari hai finito anche il burro e ti rendi conto che è ormai necessario andare a fare la spesa.
Il frigo è così vuoto che potresti usarlo come barometro e in cantina non è più nemmeno rimasto l’odore dei salami che pendevano dalla volta. Il vino, poi, è come evaporato.
La prima cosa che provi a fare è ordinarla online.
I siti erano talmente intasati che dopo un po’ mi appariva direttamente la scritta STOCA**O.
All’inizio pensavo che fosse il nome della ditta che fa le consegne, poi ho capito: devo uscire!.
Mi comincio a preparare alle 10 per uscire a mezzogiorno.
Quando ho finito la vestizione sembro un incrocio tra Top Gun e uno stagnaro di Chernobyl. Orgoglioso e teso come un Sergente dei Marines che sta per andare a conquistare il Vietnam armato solo di una BIC coi cartoccetti a sputo, guardo la mia famiglia, cantiamo l’inno, ci abbracciamo piangendo e poi dico severo: “Vado all’ora di pranzo, così trovo meno gente”.
Al supermercato, ad aspettarmi, il raduno nazionale dei furbi.
Nel frattempo m’hanno pure fermato i carabinieri:
– Buongiorno, dove va?
Io li guardo. Ho i guanti, la mascherina, la tuta ermetica e 50 buste del Conad: ’ndo cavolo sto andando secondo te? A fare una rapina alla banca del seme?
Capiscono, e mi mandano via.
Arrivo al supermercato, scendo e me sento come Armstrong quando è sbarcato sulla luna.
Prendo il carrello, guardo la fila: praticamente una puntata qualsiasi di “Malattie Imbarazzanti”. Sembrava di essere ai provini per le comparse di Star Wars.
M’avvio a piedi per arrivare alla fine della fila.
Nel tragitto guardo stupito sta mostra di mascherine: da quelle normali a quelle professionali, passando per quelle fatte a punto croce e un paio di maschere antigas della guerra del Golfo. Qualcuno aveva pure foderato gli assorbenti con la carta forno.
Uno, che di ‘sta storia degli assorbenti non c’aveva capito una fava, girava con due tampax infilati nel naso.
Dopo 50 minuti a piedi, arrivo più o meno ai confini della provincia, e mi metto in fila.
Dopo 2 ore e 40 passate a pensare al senso della vita e ad aver paura di morire prima di arrivare alle casse, arrivo all’entrata del supermercato e finalmente entro!
Mi sono fatto una lista, solo beni de prima necessità.
Poi mentre cammino tra gli scaffali mi vengono in mente tutte le ricette di “Cotto e mangiato” fatte da Benedetta e comincio a comprare cose a cazzo parlando in Marchigiano. Dopo venti minuti il carrello è pieno di pasta sfoglia e ancora dovevo cominciare la lista.
Nelle corsie ci guardiamo tutti male: mi sento come Bruce Willis in “Duri a morire”, in mutande nel Bronx con addosso il cartello “odio i negri”
Se qualcuno fa un passo in più verso di me, mentalmente sono pronto a sgozzarlo con la carta forno.
A fare da sottofondo a tutto ciò, si alza un coro unanime: “Scusi, c’è la farina?”
Alla decima domanda, un commesso ha sbroccato e ha cominciato a corre per le corsie cantando “Somewhere over the rainbow” sventolando carta igienica rosa.
Finita la lista, passo davanti all’alcool, chiudo l’occhi, e butto dentro qualsiasi cosa che avesse un tappo e un’etichetta metallizzata.
Arrivo in cassa: sono più sudato dello psicologo di Valeria Marini.
Il primo istinto è quello di crollare emotivamente, come se vedessi tua figlia a Uomini e Donne. Una disperazione profonda.
Poi ti fai coraggio, perché affacciandoti da dietro il carrello, vedi in faccia la cassiera, che ha l’espressione di Giletti in diarrea. Ha gli occhi spenti, è inerme, la stanchezza ormai gliela misurano con la scala Mercalli.
Due sole cose ti dice. La prima è : “Ce l’ha la tessera?”
La seconda è: “Sono 1897€ e 37 centesimi”.
Paghi con la carta, che appena la infili nel Pos evapora, ed esci.
Da qui comincia la ritirata.
Ormai nuotando nel tuo stesso sudore, nascosto da una montagna di buste, posi tutto nel bagagliaio, riponi il carrello, butti i guanti, butti la mascherina, butti i vestiti, dai fuoco a tutto col Napalm, ti fai la doccia nudo nel parcheggio con un secchio di Amuchina pagata più dei tartufi e risali in macchina.
Arrivi a casa che sono le quattro del pomeriggio e più o meno per le 18 hai portato tutto su. In compenso ti senti come se c’avessi il fisico di The Rock.
Ti aprono la porta, ti guardano e piangono perché sei tornato. Non è chiaro se è un bene o un male.
A quel punto ti disinfettano dando fuoco a un secchio di candeggina che ti tirano addosso, ti raschiano con uno scopettone da esterni e poi puoi entrare.
Iniziate a mettere a posto la spesa disinfettando ogni confezione.
Se tutto va bene, arrivi all’ultima busta in tempo per la colazione del giorno dopo.
In quel momento però, un pensiero inizia a prendere forma.
Da pensiero, diventa certezza.
L’aria si fa pesante, le gambe non si muovono, il respiro è bloccato. Gli sguardi degli astanti sono vitrei, rassegnati alla crudeltà dell’esistenza. Lo stomaco ti si stringe, le labbra tremano lasciando intravedere la paura e una lacrima silenziosa segna il tuo viso come la pioggia segna la sabbia d’inverno.
Sì…
Sì…
Sì.
Ti sei scordato il burro.