Le marce del Davaj (2a parte)


I feriti venivano uccisi immediatamente perchè d’ingombro alle colonne in marcia verso le stazioni ferroviarie. La mortalità raggiunse livello altissimi e non ci fu alcuna registrazione dei morti che venivano lasciati sul campo di battaglia senza sepoltura.
Le autorità sovietiche erano al corrente di quanto stava accadendo ed emanarono numerosi decreti che non modificarono però la situazione. Secondo le disposizioni dell’Nkvd non sembra che ci fosse la volontà di infierire sui soldati catturati, piuttosto fu probabilmente l’impreparazione dell’Armata Rossa a gestire un numero così alto di prigionieri a causare un’alta moria, insieme – naturalmente – all’odio che storicamente i russi hanno per loro natura contro qualsiasi invasore. L’esercito sovietico aveva la necessità di liberare al più presto i campi di battaglia e di allontanare i prigionieri il prima possibile per evitare colpi di mano tedeschi coi quali potessero essere liberati i soldati da poco catturati. In mancanza di mezzi e di una direzione precisa, i sovietici incolonnarono i prigionieri in lunghissima fila e li indirizzarono verso le più vicine stazioni ferroviarie.
Le cosiddette “marce del davaj” dal termine russo, ‘davaj’ che significa “avanti”, provocarono un altissimo numero di morti tra i prigionieri. Queste marce durarono fino a venti giorni con fermate di pochissime ore per la notte, con tappe di 20 o più 20 km al giorno in condizioni disumane. I soldati catturati furono costretti a camminare senza soste e senza cibo, a dormire all’addiaccio con temperature polari e molti di loro non riuscirono a resistere e morirono o furono uccisi e lasciati lungo il percorso senza sepoltura. Il tenente Carlo Vicentini ricorda come quelle parole continuamente ripetute dai sovietici fossero diventate un incubo: “Davaj, davaj, bistreie!, (Avanti, avanti, più in fretta!) Facevamo per la prima volta conoscenza con questa frase. Essa ci avrebbe ossessionato per mesi, urlata, anzi abbaiata, dalle sentinelle che ci scortavano; la ripetevano con ritmo esasperante, non solo per sollecitare quelli che camminavano in testa, ma soprattutto per minacciare coloro che sfiniti o zoppicanti sui piedi diventati di marmo, si trascinavano in coda alla colonna.”.
I nostri soldati erano debilitati dalla fatica anche a causa della mancanza di cibo. In alcune colonne i prigionieri ricevettero del pane solo un paio di volte in venti giorni di cammino. Dalla relazione del tenente medico Temistocle Pallavicini, del 3° rgt. Bersaglieri apprendiamo che: “la marcia di trasferimento sino alla stazione ferroviaria di Milajlovka, durò esattamente dal 22 dicembre 1942 al 10 gennaio ‘43; i soldati ricevettero nutrimento due volte.”
C. Vicentini (Noi soli vivi, quando settantamila passarono il Don, Milano, Mursia, 1997) scrive: “Chi non riusciva a seguire le colonne veniva freddato dalle guardie che avevano l’ordine perentorio di allontanare le colonne il più velocemente possibile: “la colonna si era allungata per chilometri, selezionando i più forti dai più deboli, quelli che erano meglio equipaggiati da quelli che avevano ben poco per riposarsi […] quella processione di zoppicanti, quell’arrancare sull’orlo dello sfinimento di tanti prigionieri in coda alla colonna, spazientiva i ragazzi della scorta. Minacce e schioppettate, non servivano a far camminare più svelti quelli che a mala pena stavano in piedi o far muovere quelli che si buttavano nella neve della banchina, incapaci di proseguire sui loro piedi tumefatti. Le sentinelle allora risolvevano senza scrupoli il problema di terminare la tappa a ridosso dei primi: con una raffica di mitra alla nuca, eliminavano i ritardatari e serravano sotto”.
Le colonne erano formate generalmente da un migliaio di prigionieri ed erano scortate solo da una ventina di guardie reclutate tra i giovani soldati e i partigiani; un numero così basso dava spazio ad episodi di crudeltà continua perchè le guardie molto spesso trovavano nel terrore l’arma con cui controllare questa folla di derelitti: la loro crudeltà e la loro incoscienza erano incomprensibili ai nostri soldati. “… A volte sparavano raffiche sopra le nostre teste senza ragione. Ogni cento passi, qualcuno dei nostri, ucciso o ferito, si rotolava sulla strada e c’era subito uno di quei ragazzi che piombava su di lui per depredarlo”. Chi era costretto a marciare non si poteva spostare di un metro, fermarsi o rimanere indietro. Scrive un altro testimone: “quelli che cadevano a fianco a noi restavano alle nostre spalle. Dopo un po’ sentivamo un colpo di pistola ed intuivamo la loro sorte. Non potevamo fermarci mai. La mancanza di pietà mi annichiliva. […] Non c’eravamo battuti sino a poche ore prima lealmente e coraggiosamente? Che cosa spingeva questi nemici a comportarsi come belve? Perchè ci odiavano tanto, anche ora che eravamo vinti ed inermi?”.
La notte poi non portava assolutamente ristoro ai prigionieri. Le colonne sostavano la sera in luoghi non adatti ad ospitare migliaia di persone. I più fortunati potevano trovare ricovero in capannoni o stalle ma la maggior parte era costretto a rimanere all’esterno, alloggiati la notte in scuole o pagliai, ma la più parte delle volte all’addiaccio. In questa situazione non si poteva nemmeno dormire perchè si rischiava il congelamento.
Accanto a questi fatti non mancarono però anche episodi di solidarietà soprattutto da parte della popolazione civile- Racconta un superstite: “busso a tre o quattro isbe, nessuno si fa vivo. Mi infilo in un bunker in cerca di patate: nulla. Esco ed incontro una vecchia con una bottiglia di latte. È venuta incontro a me apposta per offrirmi il latte. Bevo, mi sento rivivere. Abbraccio la donna, la bacio e lei mi fa segno di sparire. Ha paura delle guardie”.
La fine delle marce coincise con l’arrivo nelle stazioni ferroviarie. La gioia improvvisa dei prigionieri per la fine di quella sofferenza si spense appena furono consci delle condizioni in cui avrebbero dovuto viaggiare. Ammassati su carri bestiami in numero ben superiore rispetto alla capienza dei singoli vagoni ed in condizioni disumane in quanto era impossibile sdraiarsi e si era costretti a rimanere in piedi schiacciati uno contro l’altro senza cibo e senza alcun tipo di riscaldamento. Ancora una volta ci aiuta la testimonianza di Carlo Vicentini per descrivere quelle condizioni: “Quando il centesimo prigioniero fu caricato, la porta scorrevole fu chiusa a gran fatica e fuori il chiavistello fu agganciato. Restammo nel buio inebetiti e sgomenti, non ancora convinti che quanto accadeva era realtà e non vaneggiamento. (…) Lentamente gli occhi si abituarono al buio e ci accorgemmo che il filo di luce che entrava dalle fessure delle porte e delle finestrelle in altro, anche se sbarrate con assi di legno, erano sufficienti per guardarci in faccia. (…) Eravamo tutti in piedi, ben pigiati e per rigirarsi o muovere un braccio occorreva una laboriosa manovra. Il vocio, le maledizioni, le bestemmie, le invocazioni continuavano a riempire il vagone: era la comprensibile reazione all’euforia di poche ore prima, quando credevamo che il brutto fosse finito. (…) La notte fu eterna, allucinante, demenziale. Stanchi, infiacchiti da due settimane di marce, affamati, nessuno di noi era in grado di resistere in piedi per tante ore. Prima qualcuno, poi tanti altri, abbandonati dalle forze, scivolavano tra le gambe dei compagni, si accasciavano su se stessi come sacchi vuoti, qualche volta senza nemmeno toccare il pavimento, tant’era fitta la selva dei corpi. Ad uno ad uno cedemmo tutti ed il vagone divenne un groviglio informe di corpi e di stracci, scosso ritmicamente dal treno in corsa”.
Le distanze da percorrere erano brevi, dai 200 ai 500 km ma i viaggi si protrassero anche 25 giorni perchè spesso i treni rimanevano fermi per giorni nelle stazioni o nei binari morti. Durante queste soste non era consentito scendere ai prigionieri: “Ci chiudono nei vagoni per nazionalità. Nel mio vagone siamo trentotto, alpini, fanti, camicie nere. Si parte, ma dopo pochi chilometri si sosta. I vagoni sono chiusi dall’esterno. Passano due o tre giorni; sempre fermi. Nessuno apre i vagoni, non ci portano nulla. All’alba le teste dei bulloni sono brinate e facciamo a turno per leccarle. (…) C’è puzza nel vagone, siamo tra morti, feriti e congelati; facciamo tutto nel vagone e tutto è infetto da togliere il respiro. I congelati, quando tolgono le calze, portano via anche i pezzi di carne. Dopo nove giorni di sosta ci dicono che la notte si parte. Quando, dopo venti giorni di viaggio arriviamo ad Ak Bulak in Siberia, nel mio vagone siamo vivi in sei o sette”.
Dalla cattura uno dei problemi principale per i prigionieri fu la mancanza di acqua e di cibo. Il vitto consisteva in gallette nere e aringhe che venivano lanciate all’interno dei vagoni attraverso delle finestrelle sbarrate senza però una continuità precisa e molti prigionieri poterono mangiare solo due o tre volte durante tutto il tempo del viaggio. Le condizioni disumane in cui si trovavano i prigionieri erano aggravate dalla sporcizia che regnava nei vagoni e la mancanza di pulizia causò lo sviluppo di gravi epidemie. Le più devastanti furono la dissenteria ed il tifo petecchiale che falcidiarono migliaia di soldati in poco tempo. Di tanto in tanto i sovietici aprivano gli sportelli e chiedevano: “Skol’ko kaputt?”, cioè, “Quanti morti?”, morti che venivano poi gettati dai treni e lasciati nei luoghi delle fermate. In molti casi i prigionieri non indicavano il numero dei morti del proprio vagone nella speranza di ottenere maggiori razioni di cibo. Racconta Luigi Palmieri (Davaj, Danesi, Roma, 1948): “Com’è possibile stare in un vagone bestiame, senza strati di tavoloni, in sessanta? A risolvere il problema venne ad aiutarci la Morte. Eravamo partiti in sessanta: arrivammo dopo poco più di un mese di viaggio in trentaquattro. Due li avevamo lasciati sul cimitero di Stalingrado, mentre gli altri cadaveri ci avevano seguiti fino ad Aktjubinsk negli Urali. Non ne avevamo denunziato la morte per ottenere un po’ di pane o di acqua o di pesce salato in più, quelle rare volte che i russi della scorta si ricordavano che c’erano degli uomini che chiedevano di mangiare”.
Questa tragedia, sebbene impressa a fuoco nella memoria di chi la visse, in prima persona o anche solo per contesto storico, oggi è quasi dimenticata. C’è una generale tendenza a spegnere i riflettori su tutto ciò che in qualche modo può gettare ombra sull’altra parte, ossia sui vincitori e su tutti quelli che in essi si sono da decenni riconosciuti, pur recitando rosari di menzogne per nascondere la laica verità. Non fu solo Stalin, né i suoi bojardi, a richiedere tributi di sangue ben più elevati di quello di cui si accusano (e a ragione!) i nazisti. Fu il popolo sovietico a reagire ad un’invasione come da sempre aveva imparato a fare. Ma occorre dire chiaramente che il clima creato dal regime comunista non facilitava certo i rapporti umani, e i casi di eroica pietà si contano sulle dita di poche mani. La barbarie stalinista fu complice di questi massacri. Ben oltre la convenzione di Ginevra, possiamo dire che il concetto stesso di ‘umanità’ fu superato milioni di volte.
Fu certo la guerra, quella guerra, ad assumere una connotazione così profondamente disumana, ma nel caso della ritirata di Russia non fu che la continuazione di una politica di annientamento di interi popoli voluta e diretta da Stalin in persona. Vogliamo solo ricordare la grande carestia deliberatamente provocata in Ucraina, sottraendo non solo il grano ma qualsiasi forma di cibo alla popolazione, che nel 1932-33 causò in quel Paese oltre 7 milioni di morti per fame!
L’Unione Sovietica ha taciuto a lungo sugli effetti della carestia, cominciando a parlarne solo negli anni ’80 durante la perestroika. Holodomor (in lingua ucraina e russa Голодомор) è il nome attribuito alla carestia che si abbatté sul territorio dell’Ucraina. Il termine deriva dall’espressione ucraina moryty holodom (Морити голодом), combinando le parole ucraine holod (fame, carestia) e moryty, (uccidere affamare, esaurire), la combinazione delle due parole vuol mettere in rilievo l’intenzionalità di procurar la morte per fame.
Potremmo andare avanti per ore a elencare le nefandezze del regime sovietico, ma non è lo scopo di questo articolo, che vuole semplicemente riportare alla memoria fatti che non possono e non devono essere dimenticati, al pari dei delitti commessi dall’altra parte dei reticolati, molto più strombazzati dai vincitori, quasi che esistano genocidi di serie A e di serie B.
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Fonti:
www://prigionieriitalianiurss.wordpress.com
www.wikipedia.it
Mario Rigoni Stern: “Il sergente nella neve”