Le marce del Davaj (1a parte)


Il patto Molotov – Von Ribbentrop, o “di non aggressione”, fu firmato tra Germania e Unione Sovietica firmato il 23 agosto 1939. Esso, oltre ad accordi di carattere economico resi pubblici, conteneva un quarto protocollo tenuto nascosto che sanciva la spartizione dell’Europa orientale tra le due potenze. All’alba del 22 giugno 1941 la Germania nazista con un esercito di oltre tre milioni di soldati attaccava l’Unione Sovietica, infrangendo a sorpresa il patto che impegnava le due potenze a non aggredirsi l’una con l’altra.
La campagna di Russia secondo i piani di Hitler doveva durare in tutto otto settimane correndo lungo la “direttrice A-A” e cioè da Arcangelo sul Mare Glaciale Artico ad Astrakan, sul Caspio. La motivazione ideologica sottintesa all’attacco nei confronti dell’URSS poteva essere dedotta sia dal Mein Kampf sia dalla massiccia propaganda anticomunista ed antiebraica condotta dal regime nazista. Inoltre i nazisti accampavano a motivazione geopolitica la questione del Lebensbraum, lo spazio vitale necessario per la popolazione tedesca ed individuato nelle grandi distese dell’Unione Sovietica. Mussolini non poté probabilmente esimersi dal partecipare alla campagna di Russia e nel luglio del 1941inviò un contingente esiguo, il CSIR (Corpo di Spedizione Italiano), agli ordini del generale Messe e partì dall’Italia. Era composto da tre divisioni, la PADA, la PASUBIO e la TORINO affiancata dalla 63° Legione Tagliamento.
Il regime fascista giustificò tale invio come contributo italiano alla causa antibolscevica, sebbene la preoccupazione principale del Duce stava nel rischio di rimanere esclusi dalla spartizione del bottino, soprattutto nella prima fase del conflitto, con l’avanzata inarrestabile dei tedeschi. E’ interessante notare che Hitler aveva sconsigliato Mussolini dall’inviare il contingente, ma dopo un anno di combattimenti con la situazione in stallo non si oppose all’arrivo di un’intera armata italiana che giunse al fronte il 9 luglio 1942. I soldati italiani passavano così dai 61.700 del CSIR ai 230.000 dell’8a Armata Italiana: l’ARMIR (Armata Italiana di Russia), composta anche da 16.700 automezzi, 1.150 trattori d’artiglieria, 4.500 motomezzi, 25.000 quadrupedi, 940 cannoni (di cui 356 controcarro e 52 contraerei), 31 carri leggeri L6/40 e 19 semoventi L40 [14], 64 aerei (di cui 41 caccia Macchi M.C. 200 o Macchi M.C. 202 e 23 aerei da ricognizione).
Nel primo anno di guerra l’esercito tedesco aveva ottenuto risultati eccezionali, ma con l’arrivo del “Generale Inverno” alla fine del 1942 l’Unione Sovietica era riuscita a riorganizzarsi ed era pronta ad una controffensiva. L’operazione “Piccolo Saturno” voluta dal generale Zukov, con una serie di attacchi mirati lungo tutto il fronte, l’Armata Rossa riuscì a ribaltare la situazione, sfondando le linee italiane e penetrando in profondità nelle nostre retrovie. A causa della frammentarietà dei collegamenti in un ambiente gelido e ostile l’ordine di ritirata venne dato con molto ritardo e i reparti degli alpini iniziarono a ripiegare solo nel gennaio del ’43, tra gli attacchi dell’esercito sovietico e dei partigiani russi. La ritirata si trasformò in un vero e proprio calvario che non soltanto cambiò gli equilibri della guerra, ma scolpì nella memoria del popolo italiano quegli avvenimenti. Tale memoria è rimasta nel tempo grazie anche alle centinaia di testimonianze pubblicate in Italia dai soldati che riuscirono ad aprirsi una via verso casa. Rimane in questo senso un simbolo letterario il romanzo di Giulio Bedeschi “Centomila gavette di ghiaccio”. Un autentico best seller fu anche “Il sergente nella neve” di Mario Rigoni Stern.
Non tutti coloro che sopravvissero allo sfondamento della linea del Don riuscirono a tornare in Italia e molti soldati italiani vennero fatti prigionieri. Scriva Maria Teresa Giusti in I prigionieri italiani in Russia (Bologna, Ed. Il Mulino, 2003) che “il momento della resa, fu l’inizio di una vera e propria tragedia” in quanto per la prima volta i soldati sovietici ebbero mano libera nei confronti dei nemici e la possibilità di rovesciare loro addosso l’odio accumulato dall’inizio della guerra, nutrito dal ricordo dell’orrore dell’avanzata nazista che non aveva risparmiato saccheggi di interi villaggi, abusi sulla popolazione civile ed uccisioni indiscriminate compiute dai reparti delle SS. La pressante propaganda stalinista si era concentrata abilmente sulla figura dei “predatori fascisti” ricordando in continuazione le atrocità compiute dall’esercito invasore. Così gli italiani furono le vittime dell’odio generato dai tedeschi e ne pagarono un prezzo pesantissimo. Tutta la popolazione sovietica si era sentita partecipe di una nuova grande battaglia per la difesa della propria Patria, proprio come nel 1812 quando la campagna di Russia di Napoleone Bonaparte non ebbe miglior fortuna. soprattutto dopo il primo discorso radiofonico di Stalin dall’inizio dell’attacco nel quale aveva richiamato le parole Patria e Russia sostituendole a comunismo e Unione Sovietica. Sull’onda di questa spinta popolare si era formato un largo movimento partigiano di resistenza e appena la guerra volse a favore dei sovietici, i partigiani ebbero un ruolo determinante nella gestione dei prigionieri appena catturati. Le prime ore dopo la resa furono drammatiche e segnate da uccisioni indiscriminate direttamente sul campo di battaglia dove i soldati tedeschi vennero passati per le armi e lo stesso avvenne per gli ufficiali italiani appartenenti alle camicie nere.
Racconta Carlo Caneva in Calvario Bianco (Arti grafiche friulane, Udine, 1967): “… i sovietici mettevano in fila i soldati e chiedevano la loro nazionalità:
“Nemckij?”, cioè “Sei tedesco?”
“Net, italianski”, “No, italiano”
“L’espressione del caporale dell’Esercito Rosso si fece leggermente più dolce, biascicò un “karasciò”, cioè “bene” e lo spostò di lato. Ora la sua attenzione era tutta rivolta per il soldato che era allineato di fianco. La domanda fu la stessa: “Nemckij?”, la risposta diversa. Quel soldato era un tedesco. Il russo lo spinse da parte con gli altri quattro militari della Wehrmacht, ordinò loro di spogliarsi completamente nonostante la temperatura fosse di parecchi gradi sotto lo zero e poi, a sangue freddo, li uccise con due raffiche di fucile mitragliatore”.
La libertà di cui godevano i soldati sovietici e i partigiani fu dovuta all’eccezionalità della contingenza poiché non esistevano direttive dell’Nkvd o della dirigenza sovietica che autorizzassero un simile trattamento. Anzi, un decreto emanato dal Consiglio dei Commissari del popolo (Snk) vietava di avere comportamenti violenti e di coercizione nei confronti dei prigionieri o di confiscare loro qualsiasi oggetto se non attraverso il rilascio di una ricevuta. Il decreto stabiliva una serie di norme a difesa dei prigionieri ma la sua stessa emanazione implica che fino ad allora dovessero essere stati frequenti gli abusi che i reduci subirono. Molti di essi ricordano come i sovietici si impossessarono di quanto possibile, dai temperini, ad orologi, penne e anche gli specchi, i quali sembrava avessero un valore speciale:
“… appena preso prigioniero il 24 dicembre 1942 i soldati russi si appropriarono di ogni oggetto di valore che il prigioniero possedeva, al sottoscritto per esempio, ancora prima di essere disarmato dalla pistola, oramai senza pallottole, fu sottratto l’orologio, la penna stilografica, la fede matrimoniale e una catenina. Inoltre mentre imperversava la tormenta con una temperatura che si aggirava sui 35 gradi sottozero, il sottoscritto fu privato della pelliccia” (Testimonianza del capitano Walter Lunardini, in Daniel Cherubini, I prigionieri in Unione Sovietica: tra storiografia e fonti d’archivio, Prospettiva, Civitavecchia – Roma, 2006).
La situazione per i soldati italiani catturati era tragica e per i feriti non c’era scampo. Racconta il sottotenente dell’81° rgt di Fanteria Mario Pedroni, (in Nuto Revelli, La strada del davai, Torino, Einaudi, 1966): “… la sera [ del 19 gennaio], in una sosta, fummo catturati da reparti di fanteria e carri armati. Immediatamente i feriti e gli ammalati gravi, circa 150, furono fatti scendere dagli autocarri, ammassati presso una capanna e trucidati (prima mitragliati, poi schiacciati dai carri armati). Successivamente i soldati russi, entrati in un’izba dove si trovavano una ventina tra soldati e ufficiali e gravemente feriti o congelati, li massacrarono e infine diedero fuoco all’izba stessa”.
E ancora: “… con pochi superstiti cademmo prigionieri per esaurimento e mancanza di mezzi. Non appena catturati fummo invitati a sedere sulla neve, in fila per uno, fra un cordone di “parabellum”. I carri armati schiacciarono circa 35 alpini superstiti della compagnia, ormai disarmati e prigionieri”.
Subito dopo la cattura la mortalità fu altissima. Racconta il tenente di cpl. Valentino Spada, del 5° rgt Fanteria: “Catturato a Valuiki il 28.I.1943 nella zona del Don e portato al campo di Krinovaia, con oltre 20 giorni di marcia nelle condizioni più disparate, senza vitto sufficiente, con 40°C di freddo, buttati di notte in capannoni diroccati. Durante le marce di trasferimento, nella mia colonna sono morti per stento e freddo o uccisi appositamente dai partigiani russi che ci accompagnavano, un 70% dei prigionieri”.
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Fonti:
www://prigionieriitalianiurss.wordpress.com
www.wikipedia.it
Mario Rigoni Stern: “Il sergente nella neve”