La storia si ripete


Questa è una vicenda molto simile, per non dire identica, a quella già raccontata, tempo fa, su questo settimanale; un’altra che è emersa, tra le tante di cui non si è mai saputo nulla. E’ il racconto di una nave carica di disperati in fuga, vittime di una burocrazia, stupida ed indifferente alla persecuzione ed alla morte. E’ un triste evento che risale al 24 febbraio del 1942 e che si svolse nel Mar Nero, a soli dieci chilometri dalla costa turca.
La “Struma”, questo il nome dell’imbarcazione, era una “vecchia carretta” del mare, forse più correttamente un rottame galleggiante che, varata nel lontanissimo 1867 e battente bandiera panamense, veniva unicamente utilizzata per il trasporto di bestiame lungo le rive del Danubio.
Fu affittata, nell’ottobre del 1941, dalla New Zionist Organization (NZO), figlia del Movimento Sionista Revisionista, creato dal giornalista-soldato Ze’ev (Vladimir) Jabotinsky, che si basava, appunto, su una revisionata relazione tra le organizzazioni giudaiche ed il mandato britannico, rivendicando apertamente l’autodeterminazione del popolo semitico ed il suo diritto a diventare uno Stato.
Salpata da Costanza, in Romania, il 12 dicembre, con a bordo ottocento ebrei e dieci uomini di equipaggio, tutti di nazionalità bulgara, avrebbe dovuto raggiungere la Palestina, allora controllata, appunto, dalla Gran Bretagna su mandato della Società delle Nazioni, dove i profughi speravano di iniziare una nuova vita e, soprattutto, fuggire dall’oppressione nazista. Avrebbe dovuto, perché in realtà non vi giunse mai.
La Romania, l’Ungheria e la Bulgaria, divenute loro malgrado stati satelliti della Germania, aderirono, automaticamente e con azioni repressive, al già vivo e consistente antisemitismo di stampo germanico. Le violenze contro gli ebrei erano, altresì, aumentate con l’attacco della Germania all’Unione Sovietica, il 22 giugno di quell’anno, e divenute sempre più cruente con l’entrata in azione, nelle retrovie del fronte orientale, degli “Einsatzgruppen”, formazioni speciali tedesche incaricate dello sterminio di ebrei e di altri elementi “razzialmente indesiderabili” (lett.).
In particolare, il Governo rumeno ed il suo leader, il Dittatore Ion Antonescu, non avevano in realtà bisogno di particolari esortazioni per perseguitare gli ottocentomila israeliti residenti nel Paese. Non va dimenticato che a Iasi (oggi una città universitaria al confine con la Moldavia), tra il 28 ed il 29 giugno 1942, vennero giustiziate 13.266 persone. Tuttavia, agli ebrei non cittadini tedeschi, sia pure con grandi difficoltà burocratiche ed ingenti quantità di denaro, era permesso di uscire dai loro Paesi.
Ecco quindi che, per tentare di scappare dalle persecuzioni, molti di questi si precipitarono per ottenere un posto sulla “Struma”, accettando di pagare un biglietto il cui prezzo era lievitato da 100 a 1000 dollari e venendo anche rapinati dai doganieri rumeni, al momento dell’imbarco, degli oggetti di valore e di quasi tutte le provviste che stavano tentando di portare a bordo.
La nave, come già accennato, era fatiscente. Aveva una capienza di non più di 100 persone, con una sola toilette e due sole scialuppe di salvataggio. Venne caricata a tal punto che i passeggeri dovevano fare a turno per sostare qualche minuto sul ponte e riuscire a respirare un po’ di aria meno puzzolente. Il viaggio, fortunatamente, si preannunciava breve. Una tappa a Istanbul, in Turchia, per ritirare i visti palestinesi e poi tutta una tirata fino al porto di Haifa, nella Terra Promessa.
Ma il motore della vecchia nave decise di fermarsi solo pochi minuti dopo aver lasciato il porto di Costanza. I passeggeri misero a disposizione quel poco che era loro rimasto, anelli, collane ed orologi d’oro, per pagare un meccanico disposto a ripararlo. Ci riuscì e, finalmente, dopo una sosta di dodici ore, lo fece ripartire. Il 14 dicembre, però, già in vista della costa ottomana, la nave entrò nuovamente in avaria. Il capitano, alla deriva nel bel mezzo a una rotta commerciale molto trafficata e, pertanto, a elevato rischio di collisioni, chiese aiuto alla capitaneria turca che rimorchiò l’imbarcazione e la mise subito in quarantena.
A terra, nel frattempo, le cose incominciarono a prendere una brutta piega. Dei visti promessi, non c’era traccia. E non sarebbero mai arrivati. Pertanto, qualora i profughi fossero sbarcati in Palestina, lo avrebbero fatto illegalmente, contravvenendo alle disposizioni del “Terzo Libro Bianco Britannico” che, dopo le rivolte mussulmane antisioniste, il 17 maggio 1939 aveva posto rigide limitazioni all’immigrazione ebraica. Le autorità di Ankara, dal canto loro, non li volevano far scendere a terra, nel timore che fuggissero e chiesero al Governo inglese, tramite il Consolato di Istanbul, l’autorizzazione a far proseguire la nave per Haifa, una volta riparata. Nonostante il positivo intervento del Console inglese, sia il Ministro degli Esteri di Sua Maestà, Sir Anthony Eden, che l’Alto Commissario Britannico in Palestina, Sir Harold McMichael, si opposero. “Non c’era assolutamente bisogno di quasi ottocento persone senza specifiche abilità professionali”, disse quest’ultimo.
Anche perchè i loro passaporti erano per lo più rumeni, con una piccola percentuale di ungheresi e bulgari, tutte nazioni in guerra contro la Gran Bretagna e, quindi, era presumibile la presenza, nella massa, di spie naziste. Senza contare la forte volontà, non manifestata apertamente ma molto sentita, di non scontentare gli arabi, particolarmente sensibili alla propaganda tedesca e di non incoraggiare altre immigrazioni israelite dai Balcani.
Sulla nave lo scoraggiamento incominciò a crescere. Nonostante l’aiuto della comunità ebraica di Istanbul e soprattutto dell’uomo d’affari Simon Brod, che fece arrivare cibo, acqua e medicine, le malattie, favorite dal freddo e dall’affollamento nei ponti fetidi, presero il sopravvento.
I lenti scambi burocratici tra la Turchia e la Gran Bretagna andarono avanti per circa cinque settimane. Quei disperati, sempre più affamati ed avviliti, appesero invano, lungo le fiancate della nave, cartelli invocanti aiuto. Tentarono anche di ottenere lo sbarco dei ragazzi tra gli 11 e i 16 anni, ma i turchi, pressati dalla Germania, non accettarono il loro transito attraverso il Paese e gli inglesi, consci della difficoltà di separare i giovani dai loro genitori, rinunciarono anche a questo progetto. Solo in quattro persone, già in possesso di visti palestinesi, riuscirono a scendere a terra, così come una donna, in procinto di partorire, che fu trasportata d’urgenza in ospedale. Il 23 febbraio 1942 la polizia locale, dopo che l’ennesimo ultimatum agli inglesi, perché prendessero una decisione, rimase senza risposta, salirono a bordo e tagliarono le cime di ormeggio.
La “Struma” viene rimorchiata nel Mar Nero e lasciata alla deriva, con il motore ancora in avaria. Il suo carico umano, 103 bambini, 269 donne e 417 uomini, venne abbandonato a se stesso. Ma fu una situazione che durò ben poco.
All’alba del 24 febbraio, un siluro lanciato forse per errore da un sommergibile sovietico mandò a picco la nave. In molti morirono per l’esplosione, altri affogarono, dopo ore di permanenza nelle acque gelide. Si salvò solo David Stoliar, di 19 anni, che fu soccorso dalla guardia costiera turca il giorno seguente. Il ragazzo, che nel naufragio aveva perso la fidanzata Ilse e i futuri suoceri e tentato di tagliarsi i polsi, senza riuscirci per il congelamento delle mani, fu ricoverato per una settimana in ospedale e poi condannato a 71 giorni di carcere, per immigrazione clandestina. Alla fine, raggiunse la Palestina. Combatté nell’esercito britannico contro i tedeschi e nella guerra di indipendenza del 1948, da cui nacque lo stato d’Israele.
David Stoliar è morto negli Stati Uniti, a Bend, Oregon, il 1 maggio del 2014.
La storia della “Struma” è ricordata in un pannello del “Museo dell’Olocausto”, a Gerusalemme. Per il resto, è stata del tutto dimenticata.