Il Kurdistan invaso: Mamma li turchi..!


Si sa, la storia si ripete. Poco più di cento anni fa (1914) la Turchia dava inizio al “Grande Male”, così è definito dal popolo armeno il genocidio di oltre tre quarti di quella popolazione, che alla fine del 1915 era scesa da 2,2 milioni a una cifra oscillante tra 250 e 500 mila sopravvissuti. Il massacro degli armeni (in grande maggioranza cristiani) fu pianificato ed eseguito dai “giovani turchi”, il movimento salito al potere pochi anni prima, in cui militava anche Kemal Ataturk, che nella vicenda non ebbe però alcun ruolo. L’episodio si inquadra nel progetto di una ‘Grande Turchia’ (Panturchismo) mai sopito del tutto, nemmeno al giorno d’oggi. Gli armeni sopravvissero nella terra ad est dell’Anatolia e a nord dell’Iran, che da loro ha preso nome.
Destino meno fortunato quello del popolo curdo, che non ha nemmeno diritto ad una propria terra, sparpagliato com’è a cavallo di quattro Stati: Turchia, Iran, Iraq e Siria. Proprio in Siria, dopo la vittoria sull’esercito del califfato il popolo curdo sembrava aver trovato una certa stabilità, grazie lla tolleranza, se non addirittura ad un tacito assenso di quel Bashar Al Assad tanto denigrato da un occidente assetato di oro nero da farsi servo di Erdogan più accomodante sui traffici di petrolio (sebbene molto attento al tornaconto proprio e del suo Paese).
Vediamo innanzitutto un po’ di storia di questo popolo – già più volte oggetto di massacri da parte turca – per aiutarci a capirne il tragico destino.
Il popolo curdo, tra i più antichi del vicino oriente e con più di tremila anni di storia, non ha mai avuto – dicevamo – un’entità statale duratura e stabile. Nel 612 a.C., insieme ai Persiani, sconfisse gli Assiri, leggendari per la loro ferocia. Leader della rivolta fu un fabbro curdo di nome Kawa. Il carattere nomade e feudale della società curda, con il potere esercitato nelle diverse regioni dai rispettivi capitribù, non ha favorito una mentalità disponibile a riconoscersi in un’autorità centrale: volontà egemoniche, estranee agli interessi del popolo curdo, hanno cercato in ogni modo di spezzare e cancellarne unità e identità. Nel 1639 (accordo di Kasiri-Sirin) si è avuta la prima divisione del Kurdistan, tra l’impero ottomano e quello persiano. La seconda divisione, dopo alcuni secoli, venne decisa dal trattato di Losanna del 24 luglio 1923 – con l’influenza decisiva dei paesi europei – ed è quella che ha sancito la divisione del Kurdistan tra la Turchia, l’Iran, l’Iraq e la Siria. Per capire come ciò sia stato possibile, occorre considerare che i curdi hanno combattuto durante la 1ª guerra mondiale per la Repubblica Turca contro francesi e inglesi – stati europei che, come la Germania, avevano occupato il Kurdistan – in cambio della promessa di veder riconosciuta la propria identità. Ma alla fine della guerra, nonostante nel 1920 il Trattato di Sevres, avesse posto le condizioni per la creazione di uno stato curdo indipendente (progetto a cui era favorevole il presidente statunitense Wilson), i kemalisti (da Kemal Ataturk), fautori dell’ideologia che afferma l’esistenza della sola identità turca all’interno dei confini dello stato, non rispettarono gli accordi e imposero una politica di assimilazione e di fortissima repressione. Tenendo conto della non omogeneità della popolazione curda – un sistema feudale all’interno del quale si parlavano diversi dialetti e venivano praticate le più diverse religioni – si mirava a occupare una alla volta le diverse regioni, in vista di un controllo di massa nel territorio curdo. Inevitabilmente scoppiarono molte rivolte (1925, 1930, 1937), soffocate nel sangue: i kemalisti trucidarono milioni di curdi che si erano rifiutati di rinnegare la propria identità per confondersi con quella turca. Fu il periodo denominato dello “sterminio rosso”. Dopo il 1940 i turchi usarono una strategia diversa per raggiungere il medesimo obiettivo, attraverso l’assimilazione, con l’insediamento di scuole turche in ogni paese e villaggio. I bambini, sottratti alle famiglie, erano obbligati a frequentare le scuole fino all’età di 16-17 anni con il divieto assoluto di parlare curdo (una lingua di origine iranica) e la possibilità di incontrare i genitori solo una o due volte l’anno. Gran parte dei familiari di quelli che avevano partecipato alle rivolte, intanto, erano costretti all’esilio. Questo periodo è passato alla storia (la storia curda, naturalmente) come quello dello “sterminio bianco”. Va sottolineata la doppiezza della diplomazia turca che riuscì, durante tutto il periodo della guerra fredda, ad avere l’appoggio sia degli Stati Uniti sia dell’Unione Sovietica. Va ricordato che durante l’impero ottomano, benché si tendesse ad assimilare i popoli dell’impero alla cultura turca, al Kurdistan era tuttavia concessa una certa autonomia. Veniva anche consentita l’istituzione di scuole locali nelle quali trovavano spazio la lingua e la cultura curda.
Tra il gennaio e il dicembre 1946 si realizza la breve esperienza di autogoverno curdo della “Repubblica curda di Mohabad”. Fondata in Iran da Mustafa Barzani approfittando delle presenza delle truppe sovietiche, finì in un bagno di sanguePer sfuggire alla forca Mustafa Barzani si rifugiò in Unione sovietica per 11 anni. Sarebbe rientrato nel Kurdistan “iracheno” con l’avvento al potere del regime repubblicano di Kassem. Dopo in breve periodo di riconciliazione e convivenza, Barzani e il suo movimento, il Partito democratico curdo (PDK), ripresero le armi per combattere contro il governo centrale di Bagdad (1962-1963). L’11 marzo 1970 il nuovo regime baatista iracheno firmava un accordo con il PDK che accoglieva in parte le richieste dei curdi riconoscendoli come la seconda nazione (insieme agli arabi) del paese.
Nel 1974 nell’area curda dell’Irak si era costituita una regione autonoma con capitale Erbil (ma con l’esclusione dell’area petrolifera di Kirkuk). Il conflitto tra curdi e Bagdad riprenderà comunque nella seconda metà degli anni settanta.
In Turchia per qualche anno l’identità curda era sembrata rimanere “in letargo” e il popolo sembrava avviato a perderne la piena coscienza. Con una legge discriminatoria la lingua curda era stata messa fuori legge dal governo di Ankara (assolutamente proibito parlarla): un tentativo per estirpare il “problema curdo” alle radici e impedire che altre rivolte potessero mettere in crisi l’autorità egemonica dello stato turco. Ma il vento rivoluzionario che all’epoca spirava in tutto il mondo (l’esempio di Che Guevara e del Vietnam, il divampare delle lotte di liberazione in Africa, Asia e America latina…) portò nuova linfa anche alla resistenza curda. A riprendere la lotta, insieme ad alcuni compagni, sarà uno studente in scienze politiche all’università di Ankara, il curdo Abdullah Ocalan, futuro leader del PKK. Intanto per i curdi la situazione rimaneva sostanzialmente la medesima. Dal 1988 al 1993 si contano più di 40 azioni militari di ampia portata nelle zone curde. L’esercito turco fece anche uso di armi chimiche – gas nervino – in particolare nel villaggio di Hani (nei pressi di Dijarbakir), sulle aree forestali (Ovarcik, Pertek) e sul monte Gabar dove si nascondevano i guerriglieri del PKK. Interi distretti (Yayladere, Perwari, Silvan, Siirt) vennero bombardati dai turchi con armi chimiche tra il 1991 e il 1993, con molti villaggi rasi al suolo per costringere i curdi ad abbandonare i loro territori. Quanto al PKK, nel 1993 compie decine di spettacolari azioni dimostrative in territorio europeo contro consolati turchi, uffici turistici e banche che hanno rapporti con la Turchia.
Nel frattempo il regime iracheno non era rimasto a guardare. Il 18 marzo 1988 nel villaggio di Halabja (Kurdistan “iracheno”) almeno 5mila persone avevano perso la vita a causa del gas nervino (ma anche napalm, fosforo bianco, cianuro) sganciato dalle truppe di Saddam Hussein, in quel momento “baluardo” e alleato dell’occidente.
Infine veniamo ai giorni nostri, con i fatti che tutti abbiamo sotto gli occhi. Questa volta , la condanna dell’invasione turca e la solidarietà al popolo curdo è stata davvero unanime. Non c’è destra o sinistra, grillini o moderati, sovranisti o globalisti che non abbia espresso indignazione per quell’aggressione infame di Erdogan battezzata con grottesco e truculento umorismo “sorgente di pace”.
Chi ha invece mantenuto un atteggiamento a dir poco ambiguo è Donald Trump, che da una parte ritira le truppe (mossa che storicamente garantisce ai presidenti repubblicani il secondo mandato) e dall’altra scaglia saette e promesse di sanzioni a Erdogan.
Ma se si scava al di sotto della superficie di questa corale condanna si cominciano a scorgere delle incongruenze ben marcate.
E’ bene premettere, con le parole di un collega, che “peggio di un tiranno c’è solo un tiranno democratico a rischio di consensi e di sostegni, che è disposto a tutto, ingaggia guerre e riaccende odî, compie manovre di diversione pur di recuperare ampio consenso e pieni poteri. Non sbrighiamola con l’etichetta di nazionalismo: in Turchia con Ataturk il nazionalismo fu un passo avanti nella libertà e nella laicità rispetto al Califfato islamico. Oggi invece conta purtroppo la matrice islamica e l’uso spregiudicato di quella fratellanza da parte di un cinico come Erdogan”.
Oggi la Turchia è un grande paese, un modello di efficienza e di sviluppo verso la modernità, anche se alle sue spalle ha crimini che continua a negare: per limitarci al novecento abbiamo già detto dei genocidi degli armeni e degli stessi curdi. Sui secoli passati è meglio stendere un pietoso sudario.
Ma Erdogan per restare a galla, ha ristretto molto i margini di libertà, ha sbattuto in carcere giornalisti e dissidenti, ha riacceso nostalgie dell’impero ottomano e ha ceduto ai ricatti delle componenti più fanatiche dell’islamismo.
Ma allora come si conciliano (prima incongruenza) le opinioni di chi dice che il rifiuto europeo di accogliere la Turchia li ha spinti tra le braccia del radicalismo islamico e chi invece sostiene il contrario? In effetti la Turchia di Erdogan ha svelato il suo vero volto e noi volevamo accogliere in Europa uno Stato così? Resta l’azione criminale nei confronti del popolo curdo, l’attacco al Kurdistan e alla Siria; l’aiuto ai terroristi dell’Isis (ricordate le file di autocisterne cariche di greggio che transitavano libere in territorio turco a dispetto delle promesse di Erdogan?) e la minaccia all’Europa di spedirci milioni di migranti, nonostante i patti e i soldi ricevuti per arginare i flussi.
Al di là di condanne di facciata (gli stessi Conte e Di Majo hanno espresso il loro disappunto) nessuna azione concreta è arrivata dall’Occidente. Non solo dalla Comunità Europea, sempre più espressione geografica in stile Metternich, ma nemmeno dalla NATO. Eh beh, certo, perché la Turchia è membro importante della NATO, con le sue basi missilistiche popolate da militari americani sempre con gli occhi puntati a est (Russia) e a sud (Iran).
Per questo e altri motivi, sempre economici e politici, tutto si limita a un mugugno che neanche a Genova saprebbero fare meglio. Pochi sono i punti comuni tra i partner europei, nessuno è disposto a fare qualcosa di concreto, a partire dal duumvirato Angelona – Micron che si sono anche fatti ritrarre abbracciati al sultano turco dai baffetti alla Adolf.
Ma nella realtà cosa siamo disposti a rischiare e a sacrificare per fermare l’orda turca e per salvare gli eroici combattenti curdi che hanno sacrificato uomini e donno (tante!) nella sacrosanta guerra contro i terroristi islamici dell’ISIS?
A parte le parole più o meno dure di biasimo, rimane una lunga serie di opzioni: rottura delle relazioni diplomatiche, isolamento internazionale della Turchia, sanzioni economiche, blocco di rifornimenti a cominciare da quelli militari (in parte già promesso, va riconosciuto), per arrivare alle azioni forti quali l’invio di una forza armata multinazionale europeo di interposizione (o di contrasto), a presidio dei territori minacciati, magari al posto degli americani in ritirata, fino a schierare portaerei e forze militari davanti al Bosforo. Ma gli USA non sarebbero d’accordo, dati i rapporti militari con questo importante membro della NATO.
Tutto questo per non ricordare che la minaccia di tre milioni di curdi liberati e migliaia di terroristi dell’Isis sguinzagliati è meno peregrina di quanto può apparire: già è giunta notizia di centinaia di foreign fighters scappati dalle carceri curde grazie alla fuga dei loro guardiani.
Ed ecco che mentre l’Europa e gli Stati Uniti fanno melina in una patetica sceneggiata la Russia di Putin si sta facendo avanti nell’intento di occupare proprio quel vuoto lasciato dall’esercito americano in ritirata. Una ritirata molto strategica e poco onorevole, verrebbe da dire.
Se l’Europa, invece di pretendere un’utopistica uniformità al suo interno esprimesse unità verso il suo esterno forse allora troverebbe una vera leadership e un’unità strategica che la farebbe agire in modo efficace contro un tiranno che rischia di assurgere a vette già di altri.
Forse che i veri europeisti sono proprio i sovranisti, coloro i quali credono ad una sovranità europea rispetto al Mondo, dopo aver rivendicato all’interno sovranità nazionali contro imposizioni dettate dall’euroburocrazia imperante; decisi a difendere i confini e la sicurezza grazie a governi forti e risoluti. Non si può contrastare un regime totalitario definendosi pacifista, antimilitarista, globalista e nemico delle frontiere.
Per il momento raccogliamoci in commosso ringraziamento dinnanzi alle fotografie delle fiere e bellissime soldatesse curde che si sono immolate per il loro popolo e che in tal modo hanno anche aiutato noi e le nostre meschinità.
Qualcuno dovrà un giorno cacciarsi in mente che un dittatore si combatte sul suo terreno, e non togliendogli l’amicizia su Facebook.

Fonti:
www.marcelloveneziani.com
www.wikipedia.it

I curdi, da Ocalan ai peshmerga