“Folgore” nel deserto (2a parte)


Lo “spirito di corpo” è sempre stata una potentissima arma nelle mani dei comandanti per portare i loro uomini a fare e, molte volte, a strafare. Le sue origini hanno come base l’emulazione o, in parole più dure, l’istinto antisociale di prevalere; la forza del gruppo è sempre servita per emergere. Ma va anche detto, per inciso e senza troppi peli sulla lingua che, nella fattispecie della guerra, lo “spirito di corpo” è risultato essere stato, il più delle volte, un “inganno psicologico”, responsabile della miseranda fine di milioni di vite umane.
Il compito specifico dei Paracadutisti, all’epoca della Seconda Guerra Mondiale, era ben preciso e limitato. Corrispondeva, nella sostanza e nella forma, ai principi che avevano guidato gli Arditi durante la Grande Guerra. Cioè, scendere dal cielo, piombare di sorpresa sulla posizione prestabilita, annientare il nemico e resistervi fino all’arrivo delle forze preposte alla prosecuzione di una solida e massiccia azione offensiva: artiglierie, mezzi corazzati, fanterie. Il loro ingaggio, pertanto, finiva lì. I superstiti ripiegavano nelle retrovie, in attesa delle future missioni. Il largo impiego di truppe paracadutate tedesche in Norvegia, Olanda e Belgio, aveva dimostrato l’efficacia e la forza di tale impiego. Ponti, nodi ferroviari, fortificazioni, aeroporti, depositi di carburanti e di munizioni vennero acquisiti o annientati con una facilità che parve incredibile persino agli stessi esecutori. Ma in terra d’Africa non fu così e non fu così nemmeno per i parà tedeschi.
Come già accennato nella parte precedente, i nostri erano scesi a terra a bordo di aerei ed a terra avrebbero dovuto combattere, come comuni battaglioni di arma base. Anche l’armamento, del tutto particolare, spicciolo, provvisorio, di immediato impiego, idoneo solo per distanze ravvicinate (oltre all’inseparabile pugnale), risultò inadatto in quel teatro. Il battaglione paracadutisti era dotato di due pezzi anticarro da 47/32, anzichè i sedici di un battaglione di fanteria di linea. Il trasporto via aerea aveva privato la “Folgore” anche del più modesto autoveicolo. Fu solo nel mese di ottobre che giunsero nel porto libico di Bengasi i primi automezzi destinati alla Divisione, ma di questo primo contingente fu possibile recuperarne soltanto una minima parte. Comunque, a che cosa sarebbe servito averli tutti in linea e per tempo, se mancava quasi completamente il carburante? Gli inglesi, perfettamente consapevoli della critica situazione in cui si trovavano le truppe italo-tedesche, accentuarono la guerra ai rifornimenti, sia in terra che in mare. E così, anche per l’approvvigionamento di viveri e di munizionamento si doveva ricorrere ad un servizio di autocarri, richiesti e comandati di volta in volta, non prima, però, di aver adempiuto a tutta una serie di lunghi ed estenuanti procedimenti burocratici. Accadeva, molto spesso, di aspettare invano anche l’arrivo del rancio.
Si pensi che all’inizio dell’offensiva di ottobre, ad El Alamein, le forze alleate avevano schierate sul fronte oltre centocinquantamila uomini, contro i novantamila italo-tedeschi. La proporzione dei carri armati e degli aerei era di almeno uno a due, in favore degli inglesi, senza tener conto della superiorità tecnica e combattiva dei singoli mezzi. Il volume di fuoco sviluppato dalle unità britanniche era almeno dieci volte superiore a quello delle truppe dell’Asse. La sola RAF sganciò sulla zona della battaglia una media di cento bombe ogni chilometro quadrato.
In queste condizioni, un esercito qualunque non avrebbe resistito più di due o tre giorni. L’Esercito Italiano si arrese il 6 novembre 1942, dopo quattordici giorni di estenuanti combattimenti. La “Folgore” si arrese, quel drammatico giorno, dopo aver lasciato sulla sabbia del deserto egiziano il novantaquattro per cento dei suoi effettivi. Eroismo inutile, si disse più tardi da parte di qualche buonista ed antimilitarista incompetente. Ma la parola “eroismo” va comunque salvata.
Che i rapporti con gli alleati tedeschi non fossero dei più cordiali, è cosa risaputa. Che i “crucchi” considerassero il nostro esercito alla stregua di un’accozzaglia di gente indisciplinata, mal organizzata, peggio comandata e con un armamento assolutamente inadeguato fu un’altra realtà che, in moltissimi casi, non rifletteva soltanto una loro imprecisa visione personale. Ma il soldato italiano, di fronte a questo palese disprezzo, reagì sempre con una specie di “non” rassegnata ammirazione, nel senso che, pur riconoscendo la superiorità germanica in fatto di organizzazione, di preparazione, di armamento, non volle mai cedere sul piano umano e su quello personale. Quando si trattava di fare a pugni, a accadeva di sovente nelle retrovie durante i momenti di riposo, gli italiani uscivano sempre vincitori e gli altri sempre malconci. Il comando tedesco era a conoscenza della giusta suscettibilità del soldato italiano. Furono, pertanto, dati ordini severissimi di evitare ogni sorta di provocazioni, ma gli scontri molto spesso furono inevitabili. Il carattere di un popolo non si modifica secondo il ritmo incalzante del tempo. E tale era ed è il carattere del popolo e, soprattutto, del soldato italiano.
Tornando alla Divisione Paracadutisti, il Maggiore Paolo Caccia Dominioni, Medaglia d’Argento al Valor Militare, scrisse sul suo libro “El Alamein” (lett.): “La “Folgore” ha compiuto il terzo mese di esperienza africana. Tre mesi sono pochi di fronte ai trentasei delle contigue “Brescia” e “Pavia”, consumate e avvizzite; ma bastano per completare il tirocinio di uomini che sembrano fusi in acciaio inossidabile. Possono dissanguarsi per fatiche, perdite e dissenterie, senza che l’animo e i muscoli vengano intaccati. Atleti adolescenti, avevano sognato luminose discese dal cielo verso la vittoria ed hanno trovato la miseria dei capisaldi sabbiosi nella geenna (termine biblico per definire l’inferno) del deserto di luglio. Ora il primo acquazzone autunnale ha offerto loro anche il tormento della notte rigida e della rena inzuppata. Ma la “Folgore”, quaggiù, domina con il senso di superiorità proprio delle unità sicure, irride alla tracotanza di un alleato spesso incline ad ignorare la presenza italiana. Ogni giorno, nello schieramento dei paracadutisti, si ha notizia di nuovi atti generosi ed edificanti”.
Il mattino dopo quel fatidico 6 novembre, al posto di blocco di El Alamein, fu lo stesso Generale Huges, Comandante della 44^ Divisione Motorizzata inglese che volle incontrare il Generale Frattini, prigioniero con tutto il suo Stato Maggiore. Volle conoscere personalmente il Comandante della “Folgore”, contro il quale si erano infranti, per otto giorni, gli attacchi delle sue truppe. Certo, avrà pensato fosse un uomo veramente eccezionale! E per dimostrargli la sua ammirazione, lo salutò, per primo, militarmente e gli strinse calorosamente la mano. Fu, questa, la resa degli onori delle armi da parte del nemico.
La motivazione della Medaglia d’Oro al Valor Militare concessa alla Divisione, oltre alle 39 conferite alla memoria ed alle 11 a viventi, recita: “Nell’epica battaglia di El Alamein, stremata per le perdite subite, cessato ogni rifornimento di acqua, viveri e munizioni, respingeva sdegnosamente, al grido di “Folgore!”, ripetuti inviti alla resa, dimostrando in tal modo che la superiorità dei mezzi poteva soverchiare i Paracadutisti d’Italia, piegarli mai. Attraverso innumerevoli episodi di eroismo collettivi e individuali, protraeva la resistenza fino a totale esaurimento di ogni mezzo di lotta, imponendosi all’ammirazione ed al rispetto nemico, scrivendo così una delle pagine più fulgide di valore dell’Esercito Italiano. Battaglia di El Alamein 23 ottobre – 6 novembre 1942.”
Non è un mistero che forse le motivazioni delle ricompense al valore sono redatte, quasi sempre, con un tono enfatico. Ma le cifre che riguardano le perdite, quelle sono una realtà che non può essere né enfatizzata, né alterata.