“Folgore” nel deserto (1a parte)


Una delle più grosse difficoltà psicologiche che dovettero superare i paracadutisti della Divisione “Folgore”, durante la “Campagna del Nordafrica”, fu quella di trovarsi, quasi a loro insaputa, sepolti nella sabbia del deserto. La cocente delusione di aver dovuto abbandonare il paracadute per essere declassati al rango di un regolare reparto di fanteria, fu un’umiliazione che, in un primo tempo, scosse negativamente il morale di uomini specializzati e programmati per ben altri compiti.
La loro preparazione, avvenuta presso la “Scuola Paracadutisti” di Viterbo, nel periodo compreso tra la fine del 1941 ed i primi mesi del 1942, era stata finalizzata unicamente al compimento di una spedizione sul territorio maltese. L’occupazione dell’isola era stata progettata in sincronia con il Comando tedesco, che vi avrebbe partecipato con una propria Divisione aviotrasportata. L’impresa fu denominata, in codice, “Operazione C 3”. E’ da sottolineare che il non aver occupato l’isola all’inizio del conflitto, con un’assoluta certezza di successo, fu uno degli errori che incisero profondamente sulle sorti della guerra nel Mediterraneo. Ma l’Italia, in quel momento, non si sentiva pronta ed i tedeschi, dal canto loro, avevano altri obbiettivi più immediati da raggiungere. Quando l’importanza strategica di Malta cominciò ad interessare gli Stati Maggiori italo-tedeschi, era ormai troppo tardi.
Nell’estate del ‘42, venne l’improvviso balzo in avanti del Feldmaresciallo Erwin Rommel, Comandante dell’Afrikakorps (che inquadrava anche Reparti italiani) fino ad El Alamein, in Egitto. Con Alessandria a centoundici chilometri ed il Canale di Suez a portata di mano, Malta passò nel dimenticatoio. Lo sforzo massimo doveva essere compiuto in quella direzione.
Il 29 giugno 1942 Benito Mussolini, in tutta segretezza, arrivò a Tripoli. Un trasporto speciale scaricò anche un meraviglioso cavallo bianco, che sarebbe servito al Duce per entrare in Alessandria, alla testa delle truppe vittoriose dell’Asse, che però avevano solo momentaneamente messo in fuga, a Tobruk nel novembre del 1941, l’8^ Armata britannica e non distrutta. Il 1° luglio, Rommel, “La Volpe del Deserto”, scatenò la sua offensiva nel tentativo di sfondare lo schieramento inglese, attestatosi ad El Alamein. Ma scrisse: “Dopo aver assalito invano, per tre giorni, la posizione di El Alamein, ho deciso di sospendere per il momento l’attacco. Il motivo è stato che il nemico diventava continuamente più forte e gli effettivi delle mie divisioni erano ridotti a 1200/1500 combattenti e, soprattutto, la situazione dei rifornimenti era straordinariamente tesa”.
La stasi delle operazioni minacciava così di trasformare una guerra di movimento in una guerra di posizione. Appuntò Galeazzo Ciano sul suo diario: “Il Duce è furioso. Se la prende con tutti. Anche con il Maresciallo tedesco. Ce l’ha con i militari che, per la seconda volta, lo hanno esposto ad una brutta figura, quella di farlo andare al fronte in momenti poco felici”. Adirato, il Duce lasciò l’Africa e, via Atene, rientrò a Roma. Il 22 luglio, i primi reparti della “Folgore” presero posizione sul fronte di El Alamein, per ordine del Maresciallo d’Italia Ugo Cavallero, mandato personalmente da Mussolini in patria a gestire ed accelerare l’invio di rifornimenti necessari per sbloccare l’incresciosa situazione.
Che i paracadutisti fossero truppe speciali, non c’era ombra di dubbio. Innanzitutto si trattava esclusivamente di volontari, cui non faceva difetto il coraggio, lo spirito di avventura, una certa dose di “menefreghismo” ed una supervalutazione di se stessi; in altre parole, possedevano tutte quelle qualità positive e negative che erano state il patrimonio degli Arditi della Grande Guerra prima e dello Squadrismo fascista poi. Alla rigida disciplina interna ai Reparti corrispondeva una pari dose di gagliardia esterna. Portare il distintivo di paracadutista era come avere il marchio di “superuomo”, cui era concesso derogare dalle regole disciplinari che accomunavano il Regio Esercito. Perciò, niente saluto agli ufficiali delle altre Armi o Forze Armate, niente uniformi portate secondo le comuni prescrizioni, licenza di fare schiamazzi, di importunare le ragazze, di provocare risse. Le Ronde cecavano di evitarli o facevano finta di non vederli. Si erano liberamente votati ad affrontare la morte scendendo dal cielo. Perché non concedere loro certe inoffensive libertà? Era il meno che si potesse fare per quei candidati al supremo sacrificio.
Naturalmente il volontarismo, il coraggio, l’amor patrio non erano sufficienti a formare un paracadutista. La valutazione sul piano fisico era rigorosissima. Gli esami medici erano scrupolosi ed interessavano tutti gli organi del corpo. In questo avveniva la prima scrematura. Nulla da fare per chi non aveva uno stato di salute più che perfetto. Ma la selezione non si fermava lì. Continuava attenta e metodica nella lunga serie di esercitazioni teoriche e pratiche che culminavano nella prova finale del lancio dall’aereo.
Un paracadutista “fallito” raccontò (lett.): “Il corso era andato benissimo. Tutte le prove superate con il massimo dei voti. Ma venne il giorno fatidico. Al “pronti per il lancio”, il mio cuore era saldissimo, ma davanti al vuoto mi prese una paralisi a tutte le membra. Non ce la feci a saltare. Invano l’istruttore ripeteva l’ordine, me lo urlava, mi minacciava. Mi afferrai con le mani alla passatoia per il terrore e ci volle tutta la forza dell’ufficiale per staccarmi e darmi la spinta finale. Non so dire cosa provai in quei momenti. Toccai terra senza inconvenienti e la sera stessa fui rispedito al corpo di appartenenza. Avevo fallito la prova all’ultimo momento”.
Lo scarto degli aspiranti paracadutisti arrivò anche al sessanta per cento. Se si considera che la preparazione di un parà costava allo Stato circa quaranta volte quella di un soldato normale, si può calcolare quale fu lo spreco di energie consumato inutilmente a Tarquinia prima ed a Viterbo poi. Le quali scuole, per la cronaca, furono letteralmente rase al suolo in tutti i loro impianti e lo loro infrastrutture dall’indisturbata aviazione alleata, nell’estate del 1943.
Preceduti dai tedeschi nell’occupazione di Corinto ed una volta terminate le ostilità con la Grecia, sfumata la “Operazione C 3” a Malta, i paracadute, per gli italiani, si aprirono una sola ed ultima volta. Fu sulle isole di Cefalonia, Zante ed Itaca nella primavera del ’41, ma si trattò, alla fine, più di una esercitazione che di una operazione bellica. Non si sparò nemmeno un colpo di fucile. Toccò al deserto nordafricano incominciare a consumare quei preziosi capitali che l’intenzione doveva spendere in altri luoghi ed in maniera ben più redditizia.
Certamente l’arrivo di quei giovani polverosi ed avviliti non fu uno spettacolo entusiasmante. Altro che attacco verticale, altro che “Folgore dal Cielo”, come diceva il loro motto! Una vita sotterranea si sostituì a quella aperta degli spazi azzurri. I paracadute, ammonticchiati a Derna, furono a disposizione dei topi.
Nell’organizzare a Tarquinia la nuova Divisione Paracadutisti con destinazione nordafrica si pensò, per un senso di errata delicatezza psicologica, di farle assumere la denominazione di 185^ Divisione “Cacciatori d’Africa”. Si sperava così di attenuare l’amaro della pillola che le truppe dovevano improvvisamente ingoiare. La Grande Unità arrivò al punto di concentramento di El Dabah, con numerosi trasferimenti aerei che richiesero ben trenta giorni di tempo per essere conclusi, viste le continue incursioni dell’aviazione inglese, la RAF (Royal Air Force), che non dava tregua. Subito, ricompattata la totalità dell’organico, al comando del Generale di Divisione Enrico Frattini, con un atto burocratico che aveva perduto ormai ogni valore morale, fu spazzato via l’umiliante appellativo per sostituirlo con l’originario ed agognato “Folgore”, un nome che doveva acquistare un sapore leggendario, sinonimo di eroismo. E questo fu dovuto, almeno in parte, alla ribellione morale di tutti i “Folgorini” che, superato il primo momento di depressione per lo squallido impiego, ritrovarono il loro “spirito di corpo”. Vollero dimostrare che loro non erano come gli altri, che erano più audaci, più coraggiosi, più abili, più decisi. In una parola, erano truppe scelte e tali dovevano rimanere, qualunque fosse la sorte destinata.