Industria italiana: non muta il copione


Alcuni anni or sono, come molti di voi ricorderanno, la Confindustria lamentava una mancanza di programmazione strutturale che portasse ad una crescita efficace dell’industria italiana, settore trainante della nostra economia al pari – se non più – del turismo, del commercio e dell’agricoltura.
Sia Abete che Marcegaglia predicarono al vento, essendo il vento costituito da una platea di industriali ciechi e sordi, intenti solo alla coltivazione del proprio orticello. Anche il progetto faraonico di Industria 4.0, che nelle intenzioni avrebbe dovuto muovere capitali enormi e favorire, tra industria e indotto, crescite mirabolanti si è rivelato per quel che nei fatti è: un moderno dinosauro dai piedi d’argilla e dalle scaglie di platino, che non ripaga gli investimenti a lui devoluti se non in pochissimi casi.
Un esempio? Prendete una media impresa calzaturiera del basso veronese, con i suoi 50-60 dipendenti e una forte clientela articolata tra grande distribuzione organizzata (italiana ed estera) e l’intricato sottobosco del settore della moda. Bene, gli operai addetti alla manovia lavorano per otto ore al giorno ciascuno nel suo ruolo, chi tagliando pellame, chi cucendo tomaie, chi incollando tacchi. Il capo produzione annota su un taccuino (o al meglio su un computer) i dati e i volumi della giornata, che verranno poi prodotti all’amministrazione e agli enti commerciali. Mi sapete dire che vantaggio hanno costoro da un processo automatizzato che, al massimo, produrrà l’effetto di lasciare a casa qualche dipendente in esubero? O che tipo di beneficio potranno avere dall’informatizzazione dei processi quando questi sono del tutto uguali a se stessi cambiando solo la foggia delle scarpe secondo la moda?
Eppure Confindustria ha sbandierato questo progetto come il toccasana per l’intero comparto.
A onor del vero, le stesse statistiche stilate dall’associazione degli industriali parlano di una miserevole quota di aziende realmente interessate. Esse rappresentano una minoranza rumorosa sempre dietro a parlarsi addosso e a sbrodolare grandi discorsi ai convegni e alle assemblee, che regolarmente finiscono con relazioni in cui i dati reali rivelano che sono più le aziende che chiudono che quelle che traggono benefici da investimenti pensati da cervelloni che hanno come unico obiettivo il rastrellamento dei fondi europei.
Ci chiediamo se talvolta non sarebbe meglio se la programmazione industriale fosse concertata non solo tra i diretti interessati e, marginalmente, i sindacati, ma a seguito di un confronto con gli stakeholder istituzionali (governo, parti sociali, regioni, ANPA, ecc.), perché in fondo anch’essi, che rappresentano tutti noi, sono parti interessate. Forse non direttamente interessate al profitto, ma indirettamente interessate al welfare di un’intera nazione che invece sta pian piano andando a donnine allegre a causa di una classe dominante (perché domina ma non dirige!) cieca e dissennata, incapace a guardare oltre il proprio naso.
Non è il caso di tirare sempre in ballo Bilderberg o altri poteri forti (che comunque la loro particina se la sono ritagliata): il problema nasce dalla pessima gestione programmatica che sia i governi (nessuno escluso, al momento) che gli imprenditori hanno condotto per decenni.
Guardate Arcelor Mittal: prima comprano una delle migliori acciaierie d’Europa compresi tutti i suoi brevetti, quindi pian piano trasferiscono le attività in India a costi di poco superiori a un decimo di quelli italiani, quindi mettono il personale in cassa integrazione con la scusa che il piano industriale è slittato di un anno. Nel frattempo si procureranno altri santi (ben pagati) in paradiso e quindi, con la scusa che l’acciaio non si vende più come prima a causa della crisi dell’auto, chiuderanno Taranto e tanti saluti.
Però in India sfornano acciaio come brioches e così, intanto, prendono una decina di lunghezze di vantaggio sui concorrenti.
Di chi è la colpa?, chiederete. Naturalmente per Zingaretti sarà colpa dell’incapacità di questo governo (ma non fu Calenda in Grande a gestire il tavolo con Arcelor?) Per altri sarà colpa di altri ancora, tutti ciarlatani comunque riconducibili al governo gialloverde (e te pareva!). Infine ci saranno (e in effetti ci sono già) i soloni dell’Economia i quali troveranno ogni scusa per bloccare sul nascere qualunque tentativo di ripresa. Anche le nuove formule sono viste con spregio, con aria di scherno. E’ di queste ore la bocciatura solenne dei cosiddetti “minibot” (nome del tutto infelice a dire il vero) da parte di pezzi di quella moribonda Commissione che nemmeno più con l’ossigeno riesce a respirare, figuriamoci a dire cose sensate. Ma ciò che più rammarica è che anche i maghi del potere bancario europeo hanno preferito il prosciutto sugli occhi pur di non offendere il padrone di tanti anni. Come ha scritto giorni fa il neo-presidente CONSOB, prof. Paolo Savona, i minibot verrebbero creati a fronte di debiti già esistenti. Quei debiti erano già “debito”, indipendentemente dal dargli forma cartacea in un minibot. Analogamente Mario (ma è un nome del tutto arbitrario, si badi bene!) non diventa deficiente solo se lo scriviamo in un foglio: lo è già.
Tornando all’ex-ILVA, ad un’attenta analisi balzano evidenti all’occhio le colpe del Management (parola forte, lo ammetto) e dei cosiddetti “Boiardi di Stato”, esseri infidi al soldo di gruppi industriali stranieri che con un’attività lobbistica indecente e ai limiti della legalità hanno permesso negli ultimi quattro decenni la svendita di pezzi dell’ossatura portante della nostra economia a competitor stranieri: dai gruppi francesi penetrati nella moda e nell’alimentare (non sto a citare esempi perché sono troppo numerosi e non vorrei fare torti) all’industria meccanica tedesca (vi dice niente AUDI che acquista Ducati?).
In uno Stato conscio della sua condizione, quale essa sia, questa gentaglia dovrebbe essere processata per alto tradimento. Leggevo ieri un commento in rete che non riesco a disapprovare del tutto: a costoro si dovrebbe applicare il Codice Penale in Tempo di Guerra (in fondo è in atto una Guerra Commerciale contro di noi), che per i rei prevede la pena della fucilazione. L’ignoto commentatore aggiungeva la confisca di tutti i loro beni fino al terzo grado di parentela con la motivazione che se sei vicino non puoi non averne tratto vantaggio, e infine li avrebbe mandati tutti ai lavori forzati!
E invece il solito copione andrà in scena ancora e ancora, disgregando ciò che ancora resta da disgregare, come un ghiacciaio che a furia di perdere blocchi di ghiaccio si è ridotto ad una deliquescente ed effimera granita. Ma in fondo che importa? Quanti italiani se ne accorgono? Ben pochi: per i restanti quaqquaraqquà le cose veramente importanti sono la partita di calcio o le soap da migliaia di puntate, con cui la signora Maria può stordirsi di sogni e di chimere mentre la nave affonda.
In fondo è la vecchia storia della rana nella pentola: quando saranno bolliti e si ritroveranno a fare i suonatori d’arpa su una nuvoletta forse allora apriranno gli occhi, anche se ormai sarà troppo tardi.
Però non dobbiamo lasciarci trascinare dallo sconforto, perché c’è chi, pur non sapendolo, sta peggio di noi. Parafrasando un grande umorista milanese del passato: “Sü, alégher, che a Bruxelles gh’è certi crapp che l’è meij stupà j’urecc e stringg i ciapp!”