La politica dell’energia


Tutti sono sempre molto attenti alle evoluzioni, assai altalenanti, del prezzo del carburante. I media danno costantemente notizie connesse al problema, riferendosi ormai solo ai Paesi del Medioriente, produttori quasi assoluti del quantitativo di petrolio importato e detentori delle riserve, in barili accantonati, che determinano i reali movimenti di mercato.
Ma nessuno sa (chi sapeva magari non c’è più o ha del tutto dimenticato) quale sia stata l’importanza storica che, nel nostro Paese, ha avuto la politica energetica. Di sicuro, fu una delle più importanti manifestazioni riformiste italiane del dopoguerra, condotta direttamente dallo Stato, senza interferenze da parte delle compagnie petrolifere internazionali.
Il nostro mercato era, a quei tempi, considerato troppo ristretto per poter suscitare un sufficiente interesse. Allo scoppio dell’ultima guerra, l’Agip (Azienda Generale Italiana Petroli, fondata a Roma nel 1926), ente nazionale, gestiva una parte dell’approvvigionamento e della distribuzione, mentre l’Anic (Azienda Nazionale Idrogenazione Combustibili, fondata a Ravenna nel 1936) iniziava ad occuparsi della raffinazione. Le cose cominciarono a cambiare quando fu evidente la presenza di giacimenti di metano in Val Padana. Le ricerche erano incominciate, già prima del conflitto, ad opera dell’Agip e tenacemente perseguite, dopo, per il particolare impegno di Enrico Mattei (1906-1962). Questi, un ex capo partigiano, aveva ricevuto l’incarico di Commissario, presso quell’ente, a titolo di sistemazione. Trovò, invece, in quell’organizzazione l’occasione per mettere in evidenza tutte le sue doti personali. Una volta che l’Agip ebbe individuato i giacimenti di gas, grazie anche all’ondata di interesse che provocò nell’opinione pubblica il ritrovamento di petrolio a Cortemaggiore, in provincia di Piacenza, si presentò immediatamente il problema della titolarità della ricerca. L’idea motrice della creazione dell’Eni fu la ferma volontà di impedire che le grandi riserve di gas naturale della Val Padana cadessero sotto il controllo delle società petrolifere estere che, consapevoli delle grandi opportunità, avevano incominciato a mostrare volontà di partecipazione. Si pose allora, in primo luogo, il problema del monopolio delle ricerche per lo Stato e, successivamente, quello della realizzazione di una struttura che avesse la dimensione e le possibilità adeguate, per un compito che si rivelò immediatamente di vasta portata.
Il motore di quell’iniziativa, insieme a Mattei, fu Ezio Vanoni (1903-1956), illustre economista, accademico ed uomo politico, che propose alla Camera la legge istitutiva. In comune accordo, i due presero la decisione di affidare allo Stato il monopolio dello sfruttamento degli idrocarburi della Val Padana. La battaglia per imporre la costituzione dell’Eni non fu facile. L’Agip trovò grosse difficoltà ad ottenere il credito e, ad un certo punto, si temette perfino l’embargo sulle importazioni degli impianti di perforazione. Ma Mattei si mosse a velocità vertiginosa, per mettere tutti di fronte ai fatti compiuti. In quattro anni furono costruiti oltre duemila chilometri di metanodotti, allacciate alla fornitura di gas più di mille imprese e convertite a metano due centrali elettriche.
Le argomentazioni usate da Vanoni per sostenere l’importanza della realizzazione furono assai curiose ed abbastanza capziose. Per poterle ben comprendere bisognerebbe conoscere a fondo le direttive imposte dal famoso “Codice di Camaldoli” (documento politico-programmatico elaborato nel luglio 1943, che servì d’ispirazione per l’azione, in materia politica economica, della nascente DC) sulla funzione ridistributrice del fisco. Ma, leggendo quanto espose, appaiono chiari i suoi validi ed intelligenti ragionamenti in merito. Disse che “per l’impossibilità di utilizzare lo strumento fiscale in modo sufficientemente completo per evitare il formarsi delle rendite, è sorta l’idea che soltanto l’esercizio diretto, da parte dello Stato, di questi ritrovamenti possa assicurare alla comunità del nostro Paese una sufficiente giustizia ed una sufficiente equità di partecipazione ai vantaggi di un bene, che la provvidenza ha messo a disposizione di tutti gli italiani”. E aggiunse che “ lo sforzo per risollevare le condizioni economiche dell’Italia meridionale e lo sforzo per attenuare le naturali differenze di ambiente, tra l’Italia settentrionale e l’Italia meridionale, potrebbero essere irrimediabilmente compromessi, se non intervenisse un elemento equilibratore come lo Stato, nel fissare i prezzi di distribuzione di questo prodotto, trovato e accentrato, per ora, prevalentemente nella zona già più ricca del nostro Paese”.
In verità, la realtà fu un pò diversa, poiché la rendita mineraria costituì uno dei punti di forza per l’ente, che se ne servì per fini determinati autonomamente. Le speranze suscitate nel Mezzogiorno, rimasero deluse. E’ però assodato che, oltre a proteggere il patrimonio nazionale dalle compagnie petrolifere internazionali, si realizzò una struttura che consentì la presenza dell’Italia in un mercato che, fino ad allora, le era stato precluso. La forza del progetto consistette appunto nella sua apertura e partecipazione, fin dall’inizio, a tutti i settori degli idrocarburi. E se l’Eni non nacque pienamente compiuto, esso si basò, in ogni caso, su intendimenti ben chiari e con una struttura fortemente adeguata.
Al successo dell’impresa concorsero, ancora una volta, elementi disparati, combinati tra loro in modo eccezionale. Nazionalismo, per la difesa del patrimonio statale contro l’impossessamento da parte delle sette compagnie petrolifere, le cosiddette “sette sorelle” (Exxon, Mobil, Texaco, Standard Oil, Gulf, Royal Dutch Shell e British Petroleum); statalismo, che guardava all’espansione della proprietà pubblica e dell’intervento pubblico; possibilità di avere, anche se in piccola parte, una fonte di finanziamento autonomo da parte degli industriali italiani. Fu solo grazie a queste combinazioni che si riuscì a dargli vita, peraltro, in un momento politicamente difficilissimo.
Nel 1953, alla vigilia dell’approvazione della legge elettorale maggioritaria, la cosiddetta “legge truffa”, che avrebbe segnato l’acuirsi di uno scontro politico, per certi versi ancora presente ai nostri giorni, l’Eni fu approvato addirittura con il voto della sinistra.
Si passò così al sistema delle “partecipazioni statali”, articolato su piani diversi e non più limitato dall’Iri (Istituto per la Ricostruzione Industriale, fondato a Roma nel 1933). Fu creato uno strumento che avrebbe influenzato criteri decisivi per l’economia, come le fonti di energia, una volta inquadrato in un disegno di politica economica. Ma a ciò (forse sarebbe il caso di dire purtroppo) non si arrivò mai, perchè la riluttanza verso qualsiasi forma di programmazione economica era troppo forte.
L’Eni, comunque, crebbe rapidamente. La rendita mineraria del gas naturale gli garantì risorse finanziarie assai rilevanti, per quell’epoca. Continuò la ricerca, iniziò lo sfruttamento e nel giro di dieci anni divenne un operatore a livello mondiale nel campo degli idrocarburi ed un centro plurisettoriale in Italia, soprattutto dopo il suo ingresso nel campo della chimica e della meccanica.
Si formò, e non fu un contributo di secondo piano, un “menagement” legato alla concezione dell’impresa di Stato, con un modo di pensare diverso da quello tradizionale dell’industria privata di allora, ma non per questo meno efficiente. Non a caso, contro l’Eni, si scatenò l’offensiva della grandi imprese italiane che, ad eccezione della Fiat, quella di Vittorio Valletta che la diresse dal 1921 al 1966, dettero costantemente prova di singolare arretratezza.
Ma le cose oggi, sono davvero migliorate? Non è facile trovare una concreta risposta.