L’immane catastrofe


“Ormai in quel lido, non altra opera umana si compie che l’ultima; il seppellimento. Non si aggirano tra le rovine se non fossori. E i fossori sono militi, come dopo una battaglia. E fu invero una battaglia quale mai non si raccontò nella storia degli uomini. Una immensa torma di cavalli […] sembrò passare al galoppo, sottoterra, nella fragorosa carica di un minuto. Una bocca di fuoco sparò […] col rombo di cento cannoni in uno, nel cupo silenzio della notte. E il mare si alzò di cinquanta metri, e la terra si abbassò e poi balzò su. E un soffio vastissimo di luce rossa, come un’improvvisa aurora boreale, alitò dal lido opposto; e un astro o più astri si sgretolarono in cielo. Fu una battaglia davvero, ma di Titani, ridesti dal loro sonno millenario in fondo agli abissi, e ritrovatisi in cuore la terribile loro collera primordiale. Ora in quel campo di battaglia, battaglia durata un attimo, dopo quindici giorni si procede all’opera ultima e postuma”.
Sono queste le parole che Giovanni Pascoli utilizzò per commemorare, nel gennaio del 1909, durante una sua lezione all’Università di Bologna, le vittime del terremoto e del maremoto, che il 28 dicembre del 1908 avevano devastato entrambe le sponde dello Stretto di Messina. Solo tre settimane prima il Paese era stato colpito da quella che sarebbe passata alla storia come la più grave catastrofe ambientale, subita dall’Italia.
Tra leggenda e realtà, si racconta che la sera prima dell’immane tragedia, una donna abbia lanciato una maledizione, sulla città siciliana, gridando vendetta nei confronti del figlio arrestato: “Sia male! Deve venire il terremoto che scelga le sue vittime e che ammazzi voi e tutta Messina”. La mattina dopo, Messina, Reggio Calabria, lo stretto di Scilla e Cariddi, cambiarono per sempre il loro volto.
Giovambattista Rizzo, Direttore dell’Osservatorio Geodinamico e Astronomico di Messina, scampato per miracolo, rilevò l’ora della prima scossa: erano le 5 20’27”. Con una intensità pari al 10° grado della scala Mercalli (che ne conta 12), il sisma, secondo le stime più accreditate, uccise tra le 80 e le 100 mila persone e causò 100 mila sfollati. Il 90% della città fu rasa al suolo. Gli unici edifici rimasti in piedi ruotarono di alcuni gradi su se stessi. Gli addetti all’”Osservatorio Ximeniano” di Firenze (fondato dal gesuita trapanese Leonardo Ximenes nel 1756) annotarono: “Stamani, alle 05,21, gli strumenti dell’Osservatorio hanno effettuato un’impressionante ma straordinaria registrazione. Le ampiezze dei tracciati sono state così grandi da non entrare completamente nei cilindri. Misurano oltre 40 centimetri. Da qualche parte sta succedendo qualcosa di grave”.
La causa del disastro sembra abbia avuto origine da una grossa frana sottomarina, a margine della costa ionica, a circa 80/100 chilometri, a largo di Capo Taormina, lungo la ripida “scarpata continentale siciliana”. E così, un grande, immenso, cimitero a cielo aperto, si aprì davanti all’occhio umano.
“Ero in letto, allorquando sentii che tutto barcollava intorno a me e un rumore di sinistro, che giungeva dal di fuori. In camicia, come ero, balzai dal letto e con uno slancio fui alla finestra per vedere cosa accadeva. Feci appena in tempo a spalancarla che la casa precipitò come un vortice, si inabissò, e tutto disparve in un nebbione denso, traversato come da rumori di valanga e da urla di gente che precipitando moriva”, raccontò al quotidiano ”Avanti!” il futuro deputato Gaetano Salvemini, allora professore universitario, che quella mattina perse la moglie, cinque figli e una sorella.
Nel 1908 Messina contava circa 120.000 abitanti. Sicuramente l’orario della scossa più forte, quella già citata delle 05,21, che colse nel sonno la maggior parte degli abitanti, fu determinante, ma non va sottovalutato che la quasi totalità delle abitazioni non era stata costruita per poter resistere a un sisma di tale intensità.
Tra i testimoni oculari ci fu anche un bambino di sette anni, futuro premio Nobel per la Letteratura, Salvatore Quasimodo (1901-1968), che si trovò ad accompagnare il padre Gaetano, ferroviere, chiamato a ripristinare le linee ferroviarie. Quasimodo, nella sua opera poetica “Al padre” (1955) ricordò: “Il terremoto ribolle da due giorni, è dicembre d’uragani e mare avvelenato”.
Per la prima volta, l’eco del disastro mobilitò una macchina dei soccorsi da tutto il mondo, gestita dall’allora Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti. La Regina Elena, dal 1896 consorte di Vittorio Emanuele III, ad esempio, si recò per soccorrere i feriti sulla flotta della Regia Marina, trasformate in ospedali. Inglesi e russi furono i primi ad arrivare, la mattina del 29 dicembre. Poi fu la volta di tedeschi, americani, francesi e spagnoli, con navi cariche di viveri, coperte, legname. Tutti si misero a scavare, anche a mani nude, per cercare, sotto le macerie, gli ultimi sopravvissuti. Nelle prime settimane del 1909, grazie alle cosiddette “passeggiate di beneficenza”, furono raccolti fondi per la ricostruzione, con lotterie e spettacoli teatrali.
Riccardo Vadalà, Direttore de “La gazzetta di Messina”, scrisse: “Nelle acque del porto galleggiava di tutto: cadaveri, carretti, mobili, carcasse d’animali, travi, botti, bastimenti affondati. Non solo le pareti si piegavano come fogli di carta, ma io stesso, che quel mattino mi trovavo in redazione, mi senti sbalzare due o tre volte all’altezza di un metro dal pavimento. Il rumore delle case crollanti mi assordava. Non vi era che un lungo, lugubre, immenso strillo, Aiuto!, Aiuto!, da ogni punto della città”.
Furono in molti ad accorrere, per portare il proprio aiuto. Come crocerossina arrivò Constance Hopcraft, moglie del patriota Ricciotti Garibaldi (figlio di Giuseppe), che decise di adottare tre bambine rimaste orfane (che si aggiungevano ai suoi 13 figli). In pochi giorni, a Messina, apparvero le cosiddette “michelopoli”, antenate delle attuali baraccopoli (fatte costruite dal Deputato emiliano Giuseppe Micheli).
Il Presidente americano Theodore Roosevelt convocò d’urgenza il Congresso, che decise di stanziare 50.000 mila dollari dollari ed inviare, nel porto della città siciliana, 16 navi militari. Il Kaiser di Prussia e Germania, Guglielmo II, grande amante dell’isola, spedì un telegramma all’amico ed ex Console tedesco a Napoli, pensionato e lì in vacanza, per avere notizie sicure. Peccato che questi fosse ancora all’oscuro della tragedia. Il kaiser inviò, comunque, navi, viveri e sei piccole case prefabbricate, in legno.
Il disastro, però, non suscitò solo solidarietà. Il mercato nero prosperò e gli sciacalli cercarono di rubare quanto rimaneva tra le rovine. In molti criticarono il Governo per la disorganizzazione dei soccorsi, l’ambigua distribuzione degli aiuti, gli abusi di potere e la mancanza di coordinamento, che fece perdere tempo prezioso. Il primo embrione della futura Protezione Civile, sarebbe nato solo nel 1925.
La catastrofe fu condivisa (e raccontata) dai maggiori intellettuali del Novecento: da Gabriele D’Annunzio a Alexandrine Zola, moglie di Emile, da Antonio Fogazzaro a Grazia Deledda, da Guglielmo Marconi a Hermann Hesse e Claude Debussy. Tanti diventarono veri e propri corrispondenti dalla “terra di nessuno”. Solo per citarne una, Matilde Serao, che su “Il Giorno”, del 31 dicembre 1908, compose: “Ti rivedo, come in un lontano sogno pieno di rimpianto, pieno di rammarico, cara città di Reggio, cara città della Fata Morgana. Ah, che io chiudo gli occhi stanchi e smarriti, li chiudo un istante e ti rivedo, innanzi alla mia fantasia Messina, Messina bella, tutta bianca sulle rive del tuo mare, tutta bianca come una città d’Oriente innanzi alle linee ineffabili della sua marina, io ti rivedo Messina Bella, perla preziosissima di Sicilia, nobile Messina, gentile Messina, amata dal navigante, dal commerciante, dal poeta e dal principe, perché eri ospitale, perché eri bella, perché eri linda e lieta, perché tutto in te era grazia e incantesimo, perla di Sicilia, schiacciata e bruciata!”.