Giustizia rallentata


Un compleanno con 100 candeline sulla torta, spente lo scorso 23 ottobre, da Bruno Bertoldi, di Bolzano, unico testimone, ancora in vita, del vigliacco eccidio di Cefalonia, che reparti dell’esercito tedesco compirono a danno degli 8.000 soldati italiani, presenti su quelle isole l’8 settembre 1943, giorno in cui fu annunciato l’armistizio di Cassibile (detto anche “armistizio corto”, siglato in questa località vicino a Siracusa), che sanciva la cessazione delle ostilità tra le forze italiane e quelle anglo-americane (da non dimenticare, come spesso fa la storia, anche i 103 Ufficiali italiani trucidati a Kos, quella che fu definita la “piccola Cefalonia”).
Nato nel 1918 e cresciuto a Carzano, un paesino in provincia di Trento, quando quel territorio apparteneva ancora al Tirolo austriaco, fu arruolato nel 1937 come effettivo all’Autodrappello della Divisione Motorizzata “Acqui”. Con lo scoppio della guerra, fu prima in Albania e successivamente trasferito nell’isola greca. Sopravvisse al massacro.
Il soldato tedesco, incaricato di fucilarlo, era un “optante sudtirolese”, che gli consentì di scappare. Rifugiatosi presso una famiglia greca, Bertoldi si consegnò quasi subito alla Wehrmacht, per evitare rappresaglie nel villaggio dove si era nascosto. Rifiutò di arruolarsi nell’esercito del Reich e, per questo motivo, fu inviato in Polonia; dopo sei mesi, spedito a Minsk, in Ucraina. In quel luogo desolato lavorò per un po’ di tempo come meccanico, prima di essere consegnato all’Armata Rossa dai partigiani, con i quali non volle combattere, pur appoggiandone la causa. Caricato sul vagone di un treno merci, nel quale era stato rinchiuso per un viaggio dalla destinazione sconosciuta, riuscì a fuggire. Camminando per due interminabili mesi attraverso la steppa gelata, giunse al lager di Tambov, nella Russia sud occidentale, da dove venne dirottato in Turkestan e, per sette mesi, impiegato nella raccolta del cotone, in un gulag.
La libertà arrivò solo nell’ottobre del 1945. Viaggiò, in treno, per 17.000 chilometri, prima di raggiungere Vienna e poi la Valsugana. Lì trovò ad attenderlo sua madre.
Nel 2013, all’età di novantaquattro anni, fu chiamato a testimoniare, presso il Tribunale Militare di Roma, nell’ambito del processo contro Alfred Stork, il novantenne ex caporale dei “Cacciatori di Montagna” (Gebirgsjäger), accusato dell’uccisione di “almeno 117 ufficiali italiani”, a Cefalonia. Bruno Bertoldi raccontò, tra l’altro, ripercorrendo con grande lucidità tutta la sua tragica esperienza, come fosse fortunosamente scampato alla morte, proprio grazie alle sue origini e al fatto di essersi imbattuto in un militare tedesco originario di Bolzano, che “forse” aveva conosciuto qualche anno prima. “Mi ha dato un calcione e mi ha mandato via, ma non mi ha ucciso”, disse. Dopo la resa della Divisione “Acqui”, i nazisti ebbero “mano libera per 48 ore”. “Ammucchiarono gli italiani, uccidendoli, con plotoni di esecuzione formati sul posto”, aggiunse. Però non disse nulla sull’uccisione degli ufficiali, alla Casetta Rossa, l’episodio specifico contestato a Stork. “Io non c’ero”, affermò a sua giustificazione.
Parlando con i giornalisti al termine dell’udienza, Bertoldi si confessò piuttosto indifferente per le sorti di Stork, che all’epoca dei fatti aveva 20 anni: “Siamo quasi coetanei e, se anche dovessero condannarlo, di certo non finirà in carcere. Questi processi non dovevano farli adesso, ma 40 o 50 anni fa. Solo che allora non si voleva arrivare alla verità: io fui sentito tante volte, ma mi chiedevano solo in quali luoghi ero stato. Quando cominciavo a parlare del comportamento dei crucchi, mi dicevano: “No, questo non ci interessa”.
Alfred Stork, ascoltato otto anni prima, in Germania, dai magistrati locali, aveva comunque ammesso di aver fatto parte di uno dei plotoni di esecuzione, attivi quel 22 settembre. “Ci hanno detto che dovevamo uccidere degli italiani, considerati traditori”, disse. Alla Casetta Rossa, furono 129 gli ufficiali giustiziati (altri sette vennero ammazzati il giorno successivo per rappresaglia) da due plotoni.
La sentenza del Tribunale Militare di Roma del 2013 è stata la prima emessa in Italia sul quella strage. Fino ad allora, infatti, i precedenti giudizi si erano conclusi in archiviazioni o per morte degli imputati, come nel caso del Maresciallo Otmar Muhlhauser.
Soddisfazione per l’Avvocato dello Stato, Luca Ventrelli: “E’ andata come doveva andare, questa è la prima sentenza su Cefalonia di qualsiasi tribunale”. Il Procuratore De Polis aggiunse: “E’ di fatto, dopo Norimberga, la prima in Europa su Cefalonia”.