Il lavoro che non c’è


Chi scrive ha avuto una vita lavorativa piuttosto poliedrica, passando dal lavoro dipendente alla libera professione e quindi all’imprenditoria. Ogni tipo di lavoro ha i suoi pro e i suoi contro e spesso uno si chiede se ha veramente fatto la scelta giusta o se invece era meglio una diversa alternativa.
Quante volte abbiamo sentito un professionista recriminare sugli obblighi derivanti dal suo lavoro dicendo frasi del tipo: “Ah certo un dipendente non ha tutte queste grane: tutti i mesi gli arriva lo stipendio e non si deve preoccupare d nulla”.
In un certo senso è vero, peccato che se non vi fossero gli imprenditori non potrebbero nemmeno esistere i dipendenti.
Anche lo Stato è un imprenditore, sebbene non tra i più oculati, e anche i suoi dipendenti, dall’usciere al magistrato, ricevono uno stipendio a fine mese, spesso anche senza averlo troppo meritato. Ma se lo Stato non funzionasse, se i suoi uffici non fossero gestiti secondo regole più o meno definite, allora l’anarchia porterebbe con sé anche la disoccupazione del pubblico impiego e sarebbe la fine di tutto.
Fatta questa catastrofica premessa, vorrei entrare nell’argomento di cui ho deciso di scrivere oggi. Da molti anni sentiamo i politici che in quel momento siedono sugli scranni del Governo promettere o rivendicare (a seconda che l’abbiano già fatta o debbano ancora farla) un’azione decisiva tesa a permettere alle imprese di assumere più lavoratori.
E’ ormai un mantra ritrito che da Prodi a Berlusconi e via via tutti i governi successivi hanno recitato quasi a voler esorcizzare una crisi del mercato del lavoro che invece è ben viva e dilagante.
Prima di esprimere il mio pensiero in proposito vorrei focalizzare l’attenzione sul concetto che questi soloni gridano al popolo, il quale – come al solito – anziché ragionare segue bovinamente chi grida più forte e chi promette di più.
Dunque, la grande promessa è: faremo quanto necessario affinché le aziende siano invogliate ad assumere. Come? Diminuendo le imposizioni sui redditi da lavoro dipendenti, il cuneo fiscale e le imposte sulle aziende.
E’ evidente che per fare ciò, ammesso che venga fatto, si dovranno reperire risorse alternative per compensare il minor gettito che lo Stato riceverà dalle imprese e dai lavoratori. E’ altrettanto evidente che tale compensazione dovrà essere ricercata aumentando tasse, accise e quant’altro a detrimento del potere d’acquisto di quei lavoratori che dovrebbero in realtà essere i beneficiari del provvedimento. Il che equivale a dire: ciò che ti troverai di più in busta paga me lo darai pagando benzina, pasta, riso e banane.
E’ il solito vecchio aforisma dell’uomo con i piedi in un secchio che cerca di sollevarsi da terra tirando il manico. Ma la cosa grave è che questi fenomeni non lo hanno ancora capito, o meglio: lo hanno capito benissimo, ma siccome il mantra funziona e i voti arrivano, continuano a raccontare la storiella sicuri che i cittadini si chiedano ancora se questa volta il finale è diverso!
Analizzando la questione con la logica e non con la pancia, possiamo tranquillamente dire che il mondo delle imprese non ha mai avuto il benché minimo beneficio da manovre di questo tenore. Dal Jobs Act (un termine orribile che solo uno che parla l’inglese di Renzi poteva coniare) tornando indietro al milione di occupati in più promessi da Berlusconi e a tutte le precedenti riforme del lavoro fatte negli ultimi trent’anni, non ce ne è stata una che abbia sortito l’effetto sperato. Le imprese hanno assunto personale quando ne avevano necessità, e non invece solo perché la manodopera costava meno! Sono imprenditore, quindi parlo di cose che vivo ogni giorno; non sono certo Adriano Olivetti (e per fortuna, altrimenti sarei morto da un pezzo) e non ho le basi economiche di Luigi Einaudi, ma vedo ciò che accade ogni giorno nelle imprese italiane.
Cosa diavolo assumo a fare se non c’è lavoro? Devo portarmi in casa lavoratori che poi metterò in cassa integrazione perché mancano le commesse e il lavoro è a mala pena sufficiente per tirare avanti? Se poi sono uno degli sfortunati che ha come cliente un’ente dello Stato, come posso garantire altri stipendi se già fatico a pagare i miei dipendenti perché il cliente non mi paga?
Io lavoro anche con gli ospedali italiani. Non rappresentano certo una grande fetta del fatturato e devo dire che è una fortuna, perché la media del ritardo nei pagamenti oscilla tra 180 e 240 giorni! Alla faccia dello split payment e della fatturazione elettronica, con relativo obbligo di pagamento dei fornitori a 30 o 60 giorni! Ma quando mai? Questi continuano col solito andazzo e pagano quando vogliono, alla faccia della legge e di chi l’ha scritta!
Tornando al punto centrale, l’unico sistema per creare nuovi posti di lavoro è quello di creare più domanda dei prodotti italiani. Non c’è altro modo, è inutile girarci intorno. E finché avremo una Comunità Europea che ad ogni occasione ci frena permettendo che le eccellenze italiane vengano vergognosamente copiate con succedanei orripilanti (vedasi il Parmigiano solo per fare un esempio), non sarà possibile aumentare la richiesta di prodotto italiano, sia alimentare che non, sia tecnologico che della moda o di quant’altro.
Se lo mettano in testa gli scienziati di partito: le imprese assumeranno di più quando venderanno di più. Quale sia la ricetta giusta affinché ciò accada, non sono in grado di dirlo: spetta agli economisti, ma c’è da sperare che a decidere siano quelli più illuminati, non i pagliacci di partito. Questi ultimi hanno fatto già abbastanza danni.