Una fuga smemorata!


Maria Clotilde di Savoia, al padre Vittorio Emanuele II, il 25 agosto 1870, da Parigi, scriveva: “Si ricorda cosa si dice dei Principi che lasciano il loro Paese? Partire, quando lo Stato è in pericolo, è un disonore e l’onta per sempre. Se partiamo, non abbiamo più che nasconderci. Nei momenti gravi bisogna avere energia e coraggio”.
Eppure, una volta dato l’annuncio dell’armistizio la sera dell’8 settembre 1943, nella notte, quei fantasmi hanno abbandonato Roma, l’esercito, il governo, la Corte, ogni cosa, per salvarsi lungo la Tiburtina, la strada che dalla capitale porta all’Adriatico, a Pescara. Un manipolo di fuggitivi, con il Re trascinato via, quasi come un ostaggio. Diranno che non scappavano. Diranno che era per non lasciar cadere il sovrano ed il governo in mano ai tedeschi, al nuovo nemico. Così avevano fatto Guglielmina d’Olanda, Haakon di Norvagia e Giorgio di Grecia. Saggia e lecita misura, se attuata con tempestività e dignità. Vittorio Emanuele, in verità, pensava di lasciare Roma già dal 28 luglio, quando temeva una violenta reazione di Hitler, alla caduta di Mussolini. Aveva detto al suo Aiutante di Campo, il Generale Paolo Puntoni, di predisporre ogni cosa per una partenza improvvisa. “Non voglio correre il rischio di fare la fine del Re del Belgio”, aveva detto. “Desidero mettermi nelle condizioni di continuare ad esercitare le funzioni di Capo dello Stato, arbitro della mia volontà e in assoluta libertà….”. Puntoni si rivolge, quindi, al Ministro della Marina, Ammiraglio Raffaele De Courten, che ordina ai cacciatorpedinieri “Antonio da Noli” e “Ugolino Vivaldi” di tenersi pronti a salpare in qualsiasi momento, sia da La Spezia che da Genova. E la sera dell’8 settembre, li fa salpare alla volta di Civitavecchia, dove avrebbero dovuto imbarcare la Famiglia Reale ed il Governo per trasferirli alla Maddalena. Si pensa anche ai Generali dello Stato Maggiore e del Comando Supremo, per i quali è disponibile, a Fiumicino, un gruppo di motoscafi veloci. Ma nella grande paura che li prende tutti, dopo l’armistizio, perdono la testa e si dimenticano di Civitavecchia e di Fiumicino. Si preoccupano soltanto della pelle.
Probabilmente, dovendosi salvare ad ogni costo, si mettono febbrilmente d’accordo con i tedeschi. In cambio della rinuncia ad ogni resistenza o ritorsione e, addirittura, in cambio dello scioglimento dell’esercito, Albert Kesselring gli lascia libera la via Tiburtina, per trasferirsi al sud.
Com’è intuibile, dopo la guerra, non si trovò nessuno dei protagonisti di quegli avvenimenti disposto ad avallare la citata tesi, peraltro caldeggiata dallo storico Zangrandi. Meno che mai Kesselring o il suo Capo di Stato Maggiore, Siegfried Westphall o i responsabili italiani di quel immane pastrocchio. Avevano tutto l’interesse a stare zitti. Rimane il fatto che negli ultimi momenti, nell’affannata confusione del panico, il Maresciallo Badoglio ebbe il tempo e la calma per trasferire, presso la sede di Bari della Banca d’Italia, 162 milioni di lire, perchè va bene essere nudi alla meta (o con soltanto una matita, come dirà, in quell’occasione, il Maresciallo), ma al riparo degli imprevisti, è meglio. E appare significativo l’abbandono del progetto di rifugiarsi in Sardegna per puntare, invece, in Puglia, dove li avevano preceduti i soldi, lungo un itinerario che solo un preciso ordine del comando tedesco poteva mantenere libero. E’ difficile, infatti, capire come mai la carovana dei fuggiaschi sulla Tiburtina sia passata indenne attraverso i numerosi posti di blocco germanici, nei quali incappò più volte, sempre accuratamente ispezionata e lasciata proseguire, benchè a bordo delle automobili viaggiassero tanti alti ufficiali in uniforme e benchè la figura del Re, così piccolo, accanto alla Regina, così grande, fosse piuttosto nota a tutti. E’ resta misterioso che l’imbarco di tutta quella gente scalmanata sia potuto avvenire di notte, ad Ortona, sotto gli occhi di un reparto della Werhmacht, che li sorvegliava dalla stazione ferroviaria; e, soprattutto, che un ricognitore tedesco abbia sorvolato la corvetta “Baionetta” più volte, durante la navigazione, scendendo a bassa quota, come per sincerarsi su chi si trovasse a bordo.
Il Re ed i Generali non fecero il viaggio che fecero, sicuro e con soste conviviali quasi piacevoli, se qualcosa o qualcuno non li avesse garantiti. Precipitazione sì, paura tanta, al punto che non si curarono nemmeno di avvertire i Ministri ed il Governo prima di scappare, mentre sarebbe bastata una telefonata. Tutti i Ministri, tranne i due militari della Marina e dell’Aeronautica, rimasero a Roma. Questo è in contraddizione alla tesi del “Governo che lascia la capitale assediata e ripara altrove”, in territorio italiano, per continuare ad esercitare le sue funzioni. Quello che arrivò a Brindisi non era il governo, bensì alcuni signori in cerca di salvezza, dimentichi dei loro colleghi ed in preda ad un grande affanno. Ma non tanto da non essere preoccupati in tempo dei propri parenti e delle proprie sostanze. Del resto, nei primi giorni di settembre Pietro Badoglio aveva spedito in Svizzera la famiglia e trasferito su di un conto a suo nome, presso una banca locale, una decina di milioni tratti dai fondi della Presidenza del Consiglio. La smemoratezza arrivò solo al momento di lasciare frettolosamente Roma, all’alba. Allora si dimenticarono veramente di tutto. Si dimenticarono, ad esempio, delle centinaia di migliaia di soldati che erano all’oscuro dell’armistizio, si dimenticarono di dire cosa stava per succedere, cosa avrebbero dovuto fare, lasciandoli senza ordini, senza comandanti, ad arrangiarsi. Badoglio dimenticò, in bella vista sul suo tavolo (dal quale aveva comunque fatto sparire alcuni documenti), il memoriale del Maresciallo Ugo Cavallero, che si professava tardivamente antinazista ed antimussoliniano, “suicidato”, per mano dello stesso Kesselring nel suo Quartier Generale di Frascati. Il Re ed il Principe Umberto si scordarono perfino di Maria Josè e dell’erede al trono, Vittorio Emanuele. Erano stati mandati “in esilio”, a Sant’Anna di Valdieri e nessuno li avvisò di ciò che sarebbe accaduto, cosicchè si trovarono, abbandonati, in pieno territorio occupato dai tedeschi. E se non fosse stato per il coraggio e l’intraprendenza della Principessa e per la dedizione di un amico, il Professore Francesco Arena, sarebbero finiti in un campo di concentramento. Al marito ed al suocero, erano proprio sfuggiti di mente!