Votare si, ma non tutti!


“Perché il mio voto vale quanto il suo?” E’ una frase che spesso abbiamo pronunciato – o anche solo pensato – riferendoci a qualcuno che non si informa sulle vicende politiche, non mostra nessuna conoscenza di educazione civica o più semplicemente è ignorante come una scarpa. Non parliamo poi di quelli che si dichiarano apertamente ostili con le istituzioni se non addirittura sono stati condannati per reati contro lo Stato, la persona o contro il patrimonio.
Questa domanda, in realtà, ne sottintende un’altra: ha senso oggi il suffragio universale?
Probabilmente no. Mi spiego meglio: non mi vogliano male le femministe, poiché il voto alle donne è sacrosanto (così come quello agli uomini, d’altronde. Ciò che spesso viene da chiedersi è se alla luce dell’ormai conclamato fallimento delle nostre democrazie non sia il caso di ripensare anche la forma di voto. Trovo infatti profondamente ingiusto e oltremodo offensivo per i cittadini onesti e partecipanti al consesso civile che analfabeti funzionali possano esprimere un voto che ha lo stesso valore del mio. Il vecchio concetto ‘one head one vote’ non può essere applicato a persone che alla domanda “Chi era Churchill?” rispondono “Un nazista” senza nemmeno pensarci, o che credono che Newton abbia scoperto la lampadina e faceva esperimenti con le piante!
Pensate che stia esagerando? Che individui di questo genere siano una frangia estremamente minoritaria della popolazione? Allora andatevi a gustare le “interviste imbruttite” su YouTube: scoprirete che somari di questo genere rappresentano ormai la normalità della fauna giovanile italiana. Da un lato è ovvio che sia così: trent’anni di insegnanti sessantottini e post-sessantottini hanno creato lo sfacelo più completo nella scuola italiana. L’aver abolito l’Educazione Civica è stato un atto di terrorismo nei confronti della vita sociale di questo Paese, e il disastro sarà completo allorché la Storia seguirà la Geografia nel ricettacolo delle materie inutili, mentre un’orda di decerebrati continuerà a pensare che un sistema binario sia un paio di rotaie e a dichiarare che un chilo di piombo pesa più di un chilo di piume.
Un’economista americana, Dambisa Moyo, economista di fama internazionale, collaboratrice del Wall Street Journal e del Financial Times e con un passato alla Banca Mondiale, ha teorizzato di recente il voto ‘ponderato’ ossia da moltiplicare per un coefficiente compreso tra 0 e 1 a seconda del grado di informazione e di interesse degli elettori.
Nel suo libro “Edge of caos” la Moyo lancia questa provocazione partendo dal presupposto che la democrazia così come intesa oggi si è “rotta” e va “aggiustata”, poiché le democrazie occidentali moderne non riescono più a guidare in modo efficace la crescita economica.
I lettori più attenti si ricorderanno che in tempi recenti avevo già dichiarato che la democrazia occidentale, almeno come la intendiamo oggi, è morta, e proponevo alcune possibili soluzioni alternative. Devo dire che. Pur con alcuni dubbi di fondo su alcuni punti della proposta, l’idea della dottoressa Moyo mi trova favorevolissimo. Io, addirittura, a determinati individui negherei il diritto di votare!
L’economista statunitense porta anche esempi di paesi privi di democrazia, come la Cina, dove l’economia prospera, e altri, profondamente democratici, come l’Unione Europea, in cui l’economia annaspa. Pertanto il voto ponderato prevede che gli elettori debbano dimostrare di essere informati per far sì che il loro voto valga appieno. Se non lo sono, vale meno.
Si badi bene he non si tratta di classismo, o peggio. Questa teoria non ha nulla da spartire con i principi di uguaglianza e con la parità dei diritti; addirittura nel suo modo di intendere non vi è legame con il grado d’istruzione né tanto meno col ceto sociale. È piuttosto legata al proprio interesse per la politica. “Se ti interessa la politica, se ci spendi tempo e passione, è giusto che la tua voce pesi di più nel dibattito”, ha detto la Moyo.
Ma come si misura l’interesse per la politica? Secondo l’economista il modo è semplice: basta fare un test, simile a quello che si usa per le domande di cittadinanza. Un’altra idea è introdurre una sorta di penalizzazione per gli astensionisti. Secondo la studiosa americana, il vero vantaggio di tutto questo meccanismo consisterebbe nello spronare la gente a impegnarsi e informarsi di più, per non sentirsi da meno rispetto agli altri: “Nessuno ha voglia di sentirsi che il suo voto vale meno e si avrebbe un maggiore impegno da parte di molte più persone. E sarebbe un bene per tutti”.
Già oggi gli elettori americani per poter votare sono tenuti a iscriversi a liste elettorali dove, quanto meno, un minimo di selezione viene fatta.
Nel caso specifico della nostra Italia – si diceva – è già in vigore una sorta di commissione d’esame che valuta la conoscenza della lingua e delle regole politiche e sociali prima di dare la cittadinanza ad uno straniero, e il diritto di cittadinanza implica anche quello di voto. Questo tipo di controllo in altri Paesi è molto più serrato che qui da noi: in Svizzera, Paese dove la residenza ad un lavoratore viene concessa con estrema facilità, il diritto di cittadinanza viene erogato col contagocce e solo dopo strettissimo controllo, al termine di un percorso ultradecennale!
In Italia invece è molto facile ottenere la cittadinanza: basta sposare un cittadino italiano, maschio o femmina che sia, e ciò indipendentemente dal sesso dell’altro coniuge. Dopo di che si è liberi di votare! Ovviamente a una fittissima schiera di politici la cosa va bene così: dove potrebbero trovare consenso, oggi, alcuni partiti (e sindacati!) che ingrossano le file dei loro cortei grazie a Sudanesi, Senegalesi e Nigeriani? Come potrebbe sopravvivere un’associazione di zombie come l’ANPI senza questo sottobosco di sherpa dal volto scuro, dato che i partigiani sopravvissuti alla guerra saranno ormai a malapena sufficienti a formare una squadra di pallavolo?
E tuttavia sarebbe opportuno fermare questo andazzo effettuando un’inversione di rotta che il povero Schettino non arriverebbe nemmeno a immaginare, per restituire la politica alle persone consapevoli e, soprattutto, normodotati intellettualmente.
Naturalmente questo tipo di meccanismo dovrebbe condurre all’elezione di politici che godano di un consenso più consapevole e non vengano votati ‘con la pancia’ ma col cervello.
L’autrice di “Edge of caos”, tra le idee per migliorare la democrazia propone anche quella di votare meno spesso, per costringere i politici a uscire dall’ottica della “campagna elettorale permanente”, e far sì che siano più impegnati a governare anziché a cercare consensi.
Francamente sono un po’ perplesso su questo punto, anche perché – sebbene un ciclo economico duri all’incirca un decennio mentre le elezioni politiche sono di solito quinquennali – i benefici in Europa e negli USA rischierebbero di non essere comparabili.
In ultimo Dambisa Moyo fa un’altra proposta: ancorare i compensi dei politici ai loro risultati economici (una sorta di bonus sulla falsariga di quelli utilizzati nel mondo del privato, così come già succede in alcuni Stati) legandoli ai risultati dell’economia statale. Sebbene nella sua ottica la Moyo ritenga auspicabile un aumento dello stipendio medio per i politici, tuttavia asserisce: “Il problema non è quanto guadagnano, ma il fatto che guadagnino comunque. L’idea è quella di ancorare i loro compensi ai loro risultati economici sul lungo periodo, come succede in molte aziende private, e come succede anche a Singapore, dove i compensi dei ministri sono per il 40% costituiti da bonus, legati ai risultati dell’economia del Paese”.