L’epilessia, tra il sacro e profano


L’umanità ha, da sempre, vissuto l’epilessia come un male affatto peculiare, non riuscendo, se non molto tardivamente e mai in modo completo, a considerarla “soltanto” una malattia. Poichè sono noti gli influssi che le credenze popolari e le interpretazioni magico-religiose hanno avuto nel formarsi degli stereotipi, è utile il tentativo di schematizzazione sullo sviluppo delle concezioni di questa infermità, nell’ambito greco-romano, sicuramente alle origini delle sedimentazioni emotive inconsce della nostra cultura.
Già in Omero si trova un riferimento all’epilessia, collegato a concetti di sacralità e di “notte sacra”, ma nel IV secolo a.C. il nome “morbo sacro” era ormai comune. Sembrerebbe sia stato Platone a definire così questa patologia, volendo sottolineare come, a suo parere, essa colpiva e metteva in travaglio la parte “divina” della psiche, soprattutto come un qualcosa di sovrumano, concetto del resto già molto esteso. Aristotele, nei “Problemi”, commentò l’uso di chiamarla “morbo erculeo”, non solo per esprimere la convinzione che il leggendario Ercole ne fosse stato affetto, ma anche per porre in evidenza l’enorme forza che aveva visto sprigionarsi dai soggetti colpiti, durante le fasi più acute delle crisi convulsive. Tuttavia Aristotele, quasi a voler correggere l’impressione di aderire ad uno stereotipo, aggiunse che tra quelle persone ve ne erano alcune che eccellevano per ingegno o per capacità artistiche.
Comunque un riferimento ancora più direttamente sacrale, già diffuso in Grecia in quell’epoca, era quello di attribuire alla dea Diana il potere di colpire i mortali, rendendoli epilettici. Va sottolineato che il mito di Diana era uno dei più complessi della teologia greca, poiché copriva realtà psichiche e credenze molto diverse. Infatti il suo potere si estendeva dal cielo agli inferi, con nomi diversi, facendo riferimento alla Luna nella sua dimensione celeste, ad Ecade in quella ctonica (terrestre). Gli Elleni, pertanto, ritenevano che, in un individuo affetto da questa patologia, la prima crisi avvenisse sempre di notte, mentre addebitavano al variare delle fasi lunari la maggiore frequenza degli episodi critici, specialmente di quelli più esasperati. Poiché Ecate era una divinità che esercitava il proprio potere nelle tenebre, ne deducevano che dovessero essere soprattutto le persone “tenebrose”, malviventi o deviati, ad esserne colpiti. Questo collegamento, tra il comportamento morale e l’epilessia, ebbe una lunga persistenza nella cultura occidentale e solo nel secolo XIX verrà superata, almeno concettualmente. Di conseguenza, poichè proveniva da una fonte divina (denominata altresì “morbo fontico”), anche la terapia doveva rifarsi alla religione. “Vocabitur etiam a Deo, immissus morbus a solo Deo et solum rimedii sacris sanandus”. Questi rimedi erano l’astinenza dal cibo, dal movimento, dall’esposizione a stimoli luminosi intensi, il placare la divinità con sacrifici e cantare inni sacri, colpendo il cervello che, nell’immaginario greco, insieme alla testa, era la parte del corpo sacra a Pallade.
In questo contesto culturale, nacque e si sviluppò la medicina intesa come scienza, soprattutto per opera di otto grandi maestri dei quali Ippocrate fu il principale rappresentante, primo a scindere nettamente lo spazio tra sacro e scienza. E proprio sull’epilessia, egli criticò a fondo ogni teoria che implicava un qualche intervento divino, o comunque sovrumano, sia nell’eziopatogenesi (analisi del processo di insorgenza di una malattia), che nella terapia. Ippocrate affermava con veemenza la casualità di questa patologia, al pari delle altre, insistendo sul fatto che poteva essere combattuta e guarita, purchè il paziente non ne fosse affetto da troppo tempo. Ed ancora, egli era convinto che l’età in cui l’epilessia compariva con maggiore frequenza era quella della pubertà, mentre riteneva che, superato il venticinquesimo anno di età, maggiori erano le probabilità che diventasse cronica. Pur continuando ad usare il termine di “morbo sacro”, probabilmente perchè di uso comune e per evitare una possibile accusa di empietà che avrebbe minato alla base la sua attività, Ippocrate individuò, con chiarezza, nell’encefalo la sede della malattia. Egli la riconosceva dai primi sintomi: bava alla bocca, movimenti oculogiri, perdita di conoscenza e, successivamente, della voce. La sua diagnosi risentiva chiaramente dei limiti delle sue conoscenze. Collegava la sequenza dei sintomi ad impedimenti della funzione respiratoria, causati da un liquido o muco che scendeva nelle vene, al punto da attribuire i movimenti degli arti alla violenza della pressione dell’aria che, circolando nei vasi sanguigni, provocava dolori e spasmi. Sempre in quest’ottica, egli mise in relazione con l’epilessia le variazioni climatiche e, in particolare, lo spirare dei venti: se provenivano da sud, tendevano a rendere l’aria rarefatta e pesante, se da nord, più condensata e pulita. Da questi cambiamenti nascevano le crisi convulsive, in quanto reazioni encefaliche all’eccesso di umido o di secco dell’aria.
Ippocrate ne considerò anche gli aspetti psicosomatici o psico-patologici. Rilevò che i soggetti “biliosi” erano colpiti con maggiore frequenza. Notò che nei periodi intercritici, specie se di lunga durata, si verificavano delle reazioni depressive e queste, a loro volta, avevano un significato particolare, dal momento che potevano essere considerate come degli “equivalenti” delle crisi: “melancholia mutatur in epilepsia et contra”. Per la terapia, egli insisteva sulla dieta, prescrivendo l’eliminazione dei pesci e ancor più dei cibi grassi. Raccomandava la pianta di elleboro (o rosa di natale), per le sue proprietà narcotiche e quella di castoro, come antispastico. Ippocrate è ritenuto l’inventore di ricette originali per la cura di questo male, che risultano composte da euforbio, ricino e sambuco.
Nel patrimonio della grande tradizione ippocratica è da collocarsi Galeno di Pergamo, che morì a Roma nel 210 d.C., il quale fu meno fiducioso del Maestro nella “vis sanatrix naturae” ed auspicò, di conseguenza, un ruolo più attivo del terapeuta. Riguardo all’epilessia, cercò di costruire un modello più esplicativo dell’eziopatogenesi e, coerentemente, del trattamento. Egli riteneva che nel paziente epilettico si instaurasse un circuito, originato nelle estremità inferiori, più sovente nella tibia, dove il morbo generava un’alterazione delle condizioni interne, così da provocarne un forte raffreddamento. A seguito di ciò, avveniva il formarsi di una condensazione di materia fredda, liquido o muco e, al tempo stesso, una corrente di aria fredda che portava la materia al cervello. Era il contatto di questa materia con l’encefalo a provocare sia il torpore, o la perdita di conoscenza, che i movimenti epilettici, cioè la crisi. Galeno riteneva che fosse sufficiente riportare la materia nelle gambe, perchè l’epilessia scomparisse, movimento questo facilitato dal “….commoveri haemorroides et varices in cruribus…”. Sostenne, ancora, che era da attribuire agli sforzi mentali eccessivi una delle possibili cause dell’epilessia, ravvisando, così, un rapporto tra ansia, affaticamento psichico e crisi epilettica. A questo riguardo fa due esempi. Innanzitutto, ricalcando la moda del tempi, che voleva fare, dei giovani adolescenti, filosofi precoci, ribadiva che il sottoporli a sforzi immoderati e prolungati, ne indeboliva il sistema nervoso e quindi li rendeva più facilmente soggetti a crisi epilettiche. Non mancò di citare gli esempi di Silla e di Giulio Cesare che, proprio a causa del loro investimento psichico “eccessivo” nell’attività politico-militare, indebolirono a tal punto il loro sistema nervoso da divenire soggetti epilettici. Dal punto di vista terapeutico, oltre ad una nota sul fatto che la febbre quartana (forma atipica di febbre che si acutizza ogni quattro giorni) avrebbe guarito l’epilessia, Galeno si ostinò sulla necessità di ingerire sostanze che avrebbero aiutato l’espulsione degli umori, quali potevano essere l’ossimele o i semi di peonia. Insistette molto anche sui purganti.
Osservazioni più nuove sull’epilessia ci sono pervenute da Areteo di Cappadocia (ca. 200 d.C.) che sosteneva l’incidenza della sessualità sull’epilessia. Asseriva l’esistenza di un rapporto tra polluzioni notturne e crisi epilettiche, specie parossistiche, così come affermò che gli epilettici erano soggetti ad una sorta di “prurito venereo”. Descrisse, inoltre, alcuni aspetti della psicologia di questi pazienti: se la malattia era di lunga data, i pazienti stavano male anche nei periodo privi di accessi. In particolare, Areteo riferì di aver osservato un senso di torpore e di rallentamento ideativo e motorio, oltre ad una spiccata tendenza all’isolamento. Rilevò la presenza di incubi notturni e di stati confusionali, sovente collegati a disturbi dell’udito, causati da rumori nell’orecchio. Questi elementi, nel loro insieme, rendevano più difficile il rapporto con il paziente epilettico. Areteo segnalò di aver incontrato anche “soggetti con forti ritardi mentali ed idioti” tra questi pazienti. Da notare che, dagli elementi messi in luce da Areteo, si passerà con facilità a distinguere gli effetti dell’epilessia in fisici e morali.
L’antichità latina fu notevolmente influenzata dalla cultura scientifica greca. Schiavi, liberi e uomini liberi provenienti dall’Ellade affollavano Roma, dove erano stimati come medici di valore. La tradizione ippocratica, quindi, vi ebbe un grande peso, influenzando perfino il linguaggio. Infatti, pur sapendo che a Roma l’epilessia veniva vissuta con connotati sacrali, tuttavia la troviamo denominata con termini meno direttamente riferiti all’ambito sacrale: “Latini vocaverunt morbum magnum, vel etiam maiorem, uti videri potest apud Celsum”. Veniva anche ribadita però la correlazione con la sessualità, iniziata, come detto precedentemente, da Areteo di Cappadocia. Infatti troviamo che Celso instaura un confronto tra l’epilessia e, probabilmente, la sifilide: “Adolescentia morbis acutis, item comitialibus tabique maxime abiecta est”. Ma la persistenza degli stereotipi sacrali in Roma si coglie principalmente nelle terapie suggerite agli epilettici. Da un lato vengono riprese a perfezionate le indicazioni igieniche: dieta povera di carne, limitazione di qualunque stimolo “forte”, come profumi, fuoco, sole e bagni caldi. Dall’altra parte, alla fitoterapia viene affiancata una terapia più “robusta”: bere del sangue caldo di un gladiatore, “giacchè solo un rimedio così atroce poteva essere efficacie contro un male così grave”. Non va dimenticato che nell’accezione latina classica, a differenza di quella greca, il termine “sacro”, soventemente, rivestiva anche il significato di “esecrabile”. Predomina, in molte diagnosi, l’appellativo di “lunatico” e quello di “morbo comiziale”, scaturito, appunto, dall’osservazione che, durante queste riunioni, con facilità si vedevano persone cadere (da qui anche il termine di “mal caduco”), prede di attacchi ritenuti epilettici. Interessanti le annotazioni di Celio Aureliano, un medico della Numidia, vissuto a Roma nel V secolo d.C. che, oltre a formulare una classificazione dell’epilessia, dividendola in un tipo che era caratterizzato da stati di torpore ed un altro che invece si riconosceva per le crisi convulsive che ne sfiguravano il corpo, la chiamò “Lues deifica”.
Il criterio popolare nei confronti di questi malati era quello di considerarli “merce avariata”, da non poter vendere nemmeno come schiavi: “Periti iuris lege caverunt, ne servus epilepticus vendatur pro merce bona”.
Queste pochi concetti, per cercare di schematizzare il passaggio dell’epilessia da uno stato dove era considerata solo come risultante dell’azione divina, o comunque sovrumana, alla sua inclusione tra i fenomeni naturali, con quell’ambiguità del sentire umano collettivo, nei confronti di questa malattia, che non solo ha tanto influito nella sua storia, ma che persino oggi mostra ancora dei segni di persistenza, nei sedimenti culturali inconsci della nostra epoca, con palese confusione tra scienza e stereotipia.